Introduzione
fonte: www.italian-art.ru
Il supporto era costituito, con ogni probabilità, da un’unica tavola di pioppo con la fibra del legno orientata in verticale. Nel XIX secolo la tavola originaria è stata piallata a tergo e montata su un nuovo supporto, e nel contempo sono stati leggermente rifilati gli orli. La doratura originaria del fondo è stata completamente rimossa e sostituita; le incisioni dei motivi ornamentali sui nimbi e gli elementi decorativi della veste, tra cui la fibbia sul manto del santo, sono posteriori, del XIX secolo. Si osservano delle consunzioni dello strato pittorico sul volto di sant’Agostino. Lungo il bordo inferiore si vede distintamente una fascia scura di ritocco, alta 3 cm. La pittura presenta uno strato di vernice protettiva posteriore, scurita e sporca.
L’opera è in pendant con la n. 13 (inv. 220).
Aurelio Agostino (354-430), grande santo e teologo, è uno dei quattro Padri della Chiesa d’Occidente. Era vescovo a Ippona, una città dell’Africa settentrionale; è tradizionalmente raffigurato in vesti episcopali, con la mitra in testa e in mano il libro e il pastorale (Kaftal 1952, col. 100-111, n. 32).
I pannelli raffiguranti Maria Maddalena e sant’Agostino erano originariamente parti di un polittico, probabilmente composto di cinque tavole. Le dimensioni delle tavole potrebbero essere state variate per adattarle alle cornici eseguite alla fine del XIX secolo. Non è da escludersi che avessero una terminazione a semicerchio.
Nella collezione Šcekin la raffigurazione di Maria Maddalena era ritenuta opera di Simone Martini, mentre quella di sant’Agostino era attribuita a Pietro Lorenzetti. Nell’inventario del Museo di Belle Arti entrambi i dipinti furono registrati come opere di scuola senese del XIV secolo, e successivamente furono inserite nell’inventario del Museo Puškin sotto il nome di Lippo Memmi. Quest’attribuzione, appartenente ad Andreeva-Šilejko (Andreyeff 1925; Andreeva 1926), è rimasta ai due dipinti fino a poco tempo fa. A tale definizione si è attenuto nelle sue pubblicazioni anche De Benedictis (1968; 1979). Come opere di Simone Martini i nostri scomparti sono invece menzionati da Berenson (1968), e successivamente pubblicati da Padovani (1979b). Restauri e rifacimenti di epoca recente hanno alterato notevolmente le tavole, contribuendo non di rado alla sottovalutazione che ne hanno dato alcuni critici. Ad esempio, Gozzoli (Contini, Gozzoli 1970) ha avanzato l’ipotesi che le opere della collezione del Museo Puškin siano delle copie o delle contraffazioni.
Un attento studio delle opere consente invece di apprezzare adeguatamente l’alto livello di esecuzione che le caratterizza, e che non lascia dubbi circa la loro attribuzione allo stesso Simone Martini. Per carattere della pittura, maniera di modellato plastico e soluzione dei movimenti e dei gesti esse sono simili, in particolare, a due pannelli con le raffigurazioni di santa Lucia e di santa Caterina, appartenenti alla collezione Berenson a Settignano (Russoli 1962, ?. XII). Berenson e altri studiosi attribuivano le tavole allo stesso Simone Martini, mentre Paccagnini e Volpe le inserivano nel gruppo di opere di un aiuto del maestro, autore della Madonna di Palazzo Venezia (Paccagnini 1955, ?. 98, fig. 4, 5). Martindale (1988), autore di una monografia sull’opera di Simone Martini, non menziona le due opere della collezione del Museo Puškin.
Andreeva-Šilejko fu la prima ad avanzare l’ipotesi che i due scomparti appartenessero allo stesso polittico (o trittico). De Benedictis (1968) tentò di ricostruire il trittico, di cui le due tavole del Museo Puškin potevano, a suo parere, costituire le tavole laterali, mentre al centro ci sarebbe stata la Madonna con Bambino della chiesa di Santa Maria Maddalena a Castiglione d’Orcia, che in precedenza veniva attribuita a Lippo Memmi. De Benedictis indicò come epoca di esecuzione dell’opera la prima metà degli anni Venti del XIV secolo, periodo in cui Lippo Memmi lavorava nella bottega di Simone Martini a Orvieto. Sebbene la studiosa partisse dal presupposto che i dipinti siano opera di Lippo Memmi, in linea di principio aveva ragione nell’affermare che le analogie più strette ai comparti del Museo Puškin siano le pale d’altare dipinte da Simone Martini e dalla sua bottega a Orvieto. Si tratta di alcuni polittici attualmente conservati nella chiesa di San Francesco a Orvieto (Martindale 1988, ?. 197, n. 19); nel Museo Isabella Stewart Gaerdner di Boston (inv. ?15?4; proveniente dalla chiesa di Santa Maria dei Servi a Orvieto; cfr.: Martindale 1988, ?p. 186-187, n. 11); nel Museo Fitzwilliam di Cambridge (inv. 552; proveniente dalla chiesa di Sant’Agostino a San Gimignano; Martindale 1988, ?p. 200-201, n. 23), nel Museo Nazionale San Matteo a Pisa (Martindale 1988, ?. 198, n. 20).
L’ipotesi di ricostruzione della pala d’altare proposta da De Benedictis fu appoggiata da Padovani (1979b), che dopo il restauro della Madonna con Bambino di Castiglione d’Orcia la attribuì a Simone Martini. Nonostante il livello abbastanza alto di esecuzione, questa composizione rappresenta tuttavia più probabilmente l’opera di un discepolo di Simone Martini, forse – come proponeva la De Benedictis – di Lippo Memmi. A favore di quest’ipotesi depongono la tipologia del volto della Madonna, che si discosta un po’ dalle opere del maestro per il taglio stretto degli occhi e il naso allungato e di forma appuntita. In confronto alle opere della collezione del Museo Puškin, sebbene la pittura sia qui celata dallo strato di vernice scurita, la Madonna con Bambino di Castiglione d’Orcia è notevolmente inferiore dal punto di vista artistico. Del resto, l’aveva già osservato De Benedictis (1968, p. 6), e successivamente Avanzati (Avanzati, in Simone Martini, 1985).
Per maniera e livello esecutivo, assomiglia ai pannelli moscoviti una raffigurazione a busto di Cristo benedicente del Museo di Capodimonte a Napoli (tempera su legno, 76 ? 46), che ha avuto attribuzioni discordanti: è stata indicata come opera dello stesso Simone Martini, della sua bottega, oppure, secondo il giudizio espresso dalla De Benedictis (1979, p. 32, ill. 55), come opera di Lippo Vanni. La svalutazione della sua qualità artistica da parte della critica contemporanea è riconducibile per molti aspetti al fatto che la superficie pittorica, come anche nelle opere del Museo Puškin, è celata da uno strato di vernice scurita. Le nostre tavole sono affini al Cristo di Capodimonte per la resa delicatissima della forma attraverso una sorta di bassorilievo creato da un fine chiaroscuro, per il carattere dei panneggi che formano un ritmo fluente, e per la raffigurazione delle mani (basti confrontare le mani di Maria Maddalena e di Cristo). Secondo la tradizione, queste raffigurazioni di Cristo erano generalmente collocate al centro del registro superiore dei polittici, ma le dimensioni dell’opera escludono questa possibilità. Si può ipotizzare che in origine fosse al centro di un piccolo polittico composto di cinque tavole disposte su un unico registro, e che tra i comparti laterali vi fossero la Maria Maddalena e il Sant’Agostino del Museo Puškin. Il confronto delle misure non contraddice quest’ipotesi; la composizione centrale era più alta di quelle laterali, e un certo divario nelle dimensioni di queste ultime è attribuibile ai rifacimenti di epoca più recente, che avrebbero potuto alterarne le dimensioni originarie. Inoltre, sia nell’icona del Museo di Capodimonte come pure nei comparti del Museo Puškin, lungo il bordo inferiore c’è una fascia di lacuna della pittura originaria che indica forse una comune provenienza e condizioni di conservazione dei tre frammenti di una pala d’altare ora dispersa.
I comparti del Museo Puskin vengono datati al 1322-1323.