Alfonso Camillo De Romanis OSA
dall’Africa in Sardegna e dalla Sardegna a Pavia
Sant'Agostino. Il Santo Dottore nella vita e nelle Opere
Testo
1. Gli studi sulle traslazioni delle reliquie di S. Agostino se paiono abbondanti in numero, in realtà non offrono larga messe di notizie criticamente vagliate. Si direbbe che gli scrittori della vita del Santo, dopo aver diligentemente trattato dei singoli avvenimenti di essa, giunti alla fine - come quei che al termine di lungo viaggio, raggiunta la destinazione, svelti salutano, affrettandosi a rientrare in casa - hanno avuto fretta di concludere. Quindi accettarono narrazioni a prima vista passabili; chi fece qualche osservazione critica non spinse l’esame sino a fondo. Per darci un’opera critica e completa il chiarissimo Mons. Francesco Lanzoni - che ha lasciato tante pregiate opere, testimoni irrefragabili della sua attività e sagacità storica, e la cui immatura perdita per la scienza storico-ecclesiastica non sarà sufficientemente rimpianta - raccolse ampia messe di notizie e documenti sulle vicende dei resti mortali di S. Agostino. Però fu prevenuto dalla morte: del suo faticoso lavoro non rimasero che note sciolte. Sarebbe stato triste lasciarle in abbandono senza ordinarle - completandole al bisogno - e quindi rivestire di muscoli e di pelle lo scheletro così composto. La cura di non lasciar disperdere la raccolta e il desiderio d’avviarci senza intoppi a raggiungere la narrazione delle traslazioni delle reliquie del santo Dottore ipponense, mi farà perdonare l’audacia d’aver preso cura del carco che non potè essere condotto in porto da nocchiero tanto esperto. Che cosa farò? Ognuno che voglia leggermi vedrà e giudicherà. Che cosa avrebbe fatto Monsignor Lanzoni non ci è dato sapere perfettamente; però abbiamo ogni diritto di dire che ci avrebbe fatto il dono gradito di uno di quei suoi studi dei quali si potrà magari discutere qualche particolare, ma che tutti ammirano e dichiarano fecondi. E finendo questi preliminari - necessari per ragioni di giustizia e di riconoscenza - mi preme avvertire che il piano del lavoro di Mons. Lanzoni sarebbe stato quasi certamente diverso dal mio. Farei a meno del quasi, se potesse aversi certezza da note non ancora coordinate e qua e là da completarsi con notizie storiche. A ogni modo questa mancanza di assoluta certezza mi ha lasciato maggior libertà nei miei movimenti, sul piano da me preferito. Le più antiche e attendibili narrazioni del trasporto del corpo di S. Agostino dall’Africa in Sardegna e indi a Pavia, sono estremamente povere di particolari, sui quali passano con poche, secche frasi, costringendo ad aiutarsi da allusioni e richiami remoti. Col tempo gli scarsi dati degli antichi cronisti si allargano, si rivestono; ma quasi sempre sono creazioni della leggenda che s’impadronisce degli oggetti, della divozione e dell’entusiasmo popolare, e maneggiando vigorosamente le primitive narrazioni, vi infiltra elementi alteranti. Così le narrazioni più ampie e diffuse e meglio conosciute dalla maggioranza sono più vicine per valore - per spiegarmi con un esempio - alla Gerusalemme Liberata che allo Scisma d’Inghilterra (parlo s’intende di valore storico). Tra queste narrazioni una richiede particolare esame; chè gode di credito tanto vasto quanto immeritato. È una lettera attribuita a Pietro Oldradi, arcivescovo di Milano. Destinatario è Carlo Magno, che avrebbe ordinato di raccogliere notizie sulle traslazioni. La narrazione è completa, ben fornita di particolari, di date e di nomi; dote in sè pregevole, ma che nella fattispecie, come vedremo, si risolve in un pasticcio. Eccone un ampio sunto.
2. Morto S. Agostino nel 430, la salma fu onorevolmente seppellita nella chiesa di S. Stefano d’Ippona. Ivi rimase quasi 56 anni, sino a quando per cura dei vescovi e d’innumerevoli fedeli, esiliati dall’iniquo re vandalo Transamundo (Trasimundo), principalmente di S. Fulgenzio, vescovo di Ruspa, fu trasferita in Sardegna, con alcune reliquie di altri santi, per sottrarla a contaminazioni: ne gemma et thesaurus tantus ab immundis spiritibus pollueretur. Per 223 anni (in margine dell’edizione romana, 221), fu venerata, distinta da miracoli nell’Isola mediterranea. Però occupata poi questa da barbari nemici e profanatori dei santi e dei luoghi sacri, Liutprando, re dei Longobardi (ch’è molto lodato per opere di pietà e di culto), mosso da Pietro, vescovo di Pavia, inviò grandi del suo regno, per redimerla. I legati regi assolsero rapidamente il mandato. Con ampie ricchezze comprarono le reliquie, fecero tosto vela per il ritorno, e con mare favorevole, in un giorno e una notte furono a Genova. Liutprando, alla notizia, convocati i vescovi, il clero, i magnati del regno, sospeso ogni altro negozio, andò incontro alla salma sacra. L’incontrò al confine dell’agro di Tortona. Deposte le insegne regali, a capo e piedi nudi (reminiscenze bibliche e di storia ecclesiastica non troppo faticose!) si pone a capo del corteo che accompagna le reliquie. Giunti all’agro di Savignano fecero sosta, passando la notte in preghiera. Però al mattino, quando sono per rimettersi in via, il sacro deposito si sente tanto grave, che gli sforzi più grandi non riescono a smuoverlo. Liutprando è costernato; piange e prega, affinchè gli sia concesso trasferire nella sua Città capitale il sacro corpo. Graziano, vescovo di Novara, gli suggerisce il voto di donare alla chiesa ove verranno deposte le reliquie il fondo, dove ora si trovano. Il re annuisce, senza difficoltà. Appena fatto il voto, s’accostano al deposito, e lo trovano tanto leggero che due soli uomini lo portano agevolmente. Così, senza ulteriori ritardi si giunse a Pavia, e qui la salma beata, tra inni e cantici, col concorso di tutto il popolo fu deposta nella chiesa di S. Pietro in Ciel d’oro. La lettera prosegue narrando numerosi miracoli, onde fu illustrato il venerando sepolcro: fra gli altri quello di 40 pellegrini ultramontani, che andavano a Roma. Mentre riposavano nel vico Cavae, distante circa tre miglia da Pavia, ebbero la visione di un vescovo che chiese loro ragione del viaggio; e avendo risposto che andavano a Roma, nelle basiliche dei Ss. Pietro e Paolo, per esser guariti dalle proprie infermità, si manifestò per S. Agostino, che li invitava a S. Pietro in Ciel d’oro, ove sarebbero sanati. Ubbidirono, e ottennero la grazia; e divulgarono il prodigio nel proprio paese. L’ Epistola fu pubblicata la prima volta, il 1587, dall’agostiniano P. Agostino Fivizzani, romano, sacrista del Palazzo Apostolico, in aggiunta alla Vita da lui composta con estratti delle Confessiones e di S. Possidio (1). L’intestazione è la seguente: Domino regum piissimo Carolo Magno Petrus Oldradus indignus mediolanensium archiepiscopus perennem in Christo coronam. Il Fivizzani dedicando l’opera sua al cardinale Giacomo Savelli, vescovo di Porto, afferma che copia della lettera gli fu favorita da Giacomo Oldradi, beneficiato della basilica di S. Pietro; e che fu esortato a pubblicarla dal P. Maestro Taddeo (Perusino), vicario generale dell’Ordine e da altre pie persone. Il cardinale Baronio la riprodusse negli Annales, aggiungendovi notizie raccolte da Beda, Paolo Diacono, Mariano Scoto, Sigiberto e altri più recenti (2). Ora all’esame della lettera dell’Oldradi.
3. A prima impressione essa pare uno dei più belli esempi conosciuti di generazione spontanea di documenti. I numerosi scrittori di cose agostiniane da Carlo Magno al secolo XVI, italiani e stranieri, la ignorano del tutto. Nè questa prima impressione è fallace. Disgrazia volle che il Baronio - certo in buona fede - l’accettasse: il prestigio del grande storico la fe’ accogliere da molti. Così aperta la via i frequentatori non mancarono più. Però, si converrà senza difficoltà da tutti che all’autenticità della lettera questo fatto non apporta un forte sostegno, anzi non apporta sostegno affatto. Gli scrittori (numerosi e sparsi per ogni dove) della traslazione delle reliquie di S. Agostino, da Carlo Magno al secolo XVI, mettono su faticosamente le proprie narrazioni, ondeggiando spesso tra incertezze e lacune, talvolta confessando chiaramente che ignorano particolari interessanti. Se invece li avesse soccorsi la lettera attribuita all’Oldradi avrebbero potuto stendere una narrazione coordinata e completa pur in particolari, senza sottostare a interrogativi lasciati in sospeso e a dubbi che non dileguano. Pare quindi più che legittimo concludere che non la conoscevano, e se non la conoscevano, tanti e per tanto tempo, non esisteva. Sono quindi giustificati pienamente gli scrittori che la rigettarono. Chè sarebbe stato troppo comodo per uno scritto di tal fatta imporsi senza resistenze e senza negazioni. Ecco alcuni valorosi critici e storici che non hanno esitato rigettarla o almeno di dubitarne fortemente. Il Muratori (3) la esclude in modo assoluto; il Pagi (4) la dice adulterina et supposititia. Il Coleti (5) l’ha per merum figmentum; C. G. Giulini (6) dice "aversi francamente tra gli eruditi come sospetta d’impostura". Per il Papebrochio (7) essa contiene tanti anacronismi che non merita fede. E della falsità della lettera non vi sono dubbi pel Federici (8); come suppositia è ancora per Maiocchi-Casacca (9). Il bollandista Guglielmo Cuper (10), benchè non osi rigettarla nettamente, la stima però sospetta e non attendibile. Non negherò che attraverso il Tillemont, il quale dubita del documento, benchè cerchi adattarlo (11), vi sono storici non spregevoli che ne ammettono la sostanza. Tali P. F. Savio (12) e Carlo Troya (13). Ma sono costretti a proporre correzioni, modificare nomi e date. Però mancando ogni base, in variazioni e dubbi di qualsiasi edizione della lettera, questo sa troppo di arbitrio.