Libro quarto
Nel qual si tratta della Communion della Distribution proportionale, che deve esser fra i professori della Vita monastica.
Cap. I. Qual sia la communione della Distribution proportionale, et di che sorte sia.
DIVIDEBATUR autem singulis, prout cuique opus erat; dice il cap. quarto del gl’Atti. cioè. Et si distribuiva à ciascuno, secondo il suo bisogno. Nel qual luoco si nota la quarta communione, che deve esser fra i Religiosi, ch’imitano la vita de gl’Apostoli, et si chiama communion di proportional distributione, la quale è descritta da sant’Agostino nella sua Regola con queste parole. DISTRIBUATUR unicuique vestrùm à Præposito vestro victus, et tegumentum. cioè. Sia distribuito à ciascun di voi dal vostro Preposito il vivere, e i vestimenti. Ma certamente non intende ogn’uno, come si debba far questa distributione. Perche alcuni credono, che si come i beni del monasterio deveno esser communi à tutti i frati, che ci vivono, così debba esser eguale alla distributione, et che tanto s’habbia à dare all’uno, quanto all’altro. Et perche vedon, che si fa altramente ne i monasterij, calunniando quest’attione, dicon, ch’i professori della Regola nostra non l’osservano, come si deve, et quasi schernendogli, et ridendo, allegano scioccamente questi versi.
Nessun tenga di proprio: stia lontano
Questo da noi; ma sia commune il tutto.
Così parliam. Ma di quel, ch’è commune;
Non ci sogliam servir tutti egualmente.
Ma, se questi versi si vorranno interpretar senza passione, si trovarà, che son più tosto conformi, che contrarij all’intention della Regola, et specialmente considerandosi queste parole, che soggiunge subito sant’Agostino. NON AEQU ALITER omnibus, quia non æqualiter valetis omnes, sed potiùs unicuiqe, sicut cuique opus fuerit. cioè. Non egualmente à tutti, perche non sete tutti d’egual dispositione, ma più tosto à ciascuno, secondo il suo bisogno. Pero si deve saper, che l’egualità, come dice il Filosofo nel quinto libro dell’Etica, è di due sorti. L’una secondo l’istessa quantità; l’altra, secondo una certa proportione. L’egualità, secondo l’istessa quantità, si considera nella giustitia commutativa, per la qual si fa comparatione da una cosa ad un’altra. L’egualità, secondo la proportione, si considera nella giustitia distributiva, per la qual si fa la proportion dalle cose, alle persone, et alle loro conditioni. Percioche, se le persone non sono eguali, secondo il valor della dignità, et utilità della Republica, non saranno anche eguali nella distribution del ben commune, come s’uno fosse capitano d’un’esercito, et un’altro fosse semplice soldato, o famiglio, non haveranno gli stipendij eguali, ma à proportione del valore, et delle fatiche di ciascuno, accioche, si come una persona avanza l’altra, così la cosa, che sia all’una, avanzi quella, che si dà all’altra. Et questa sorta di distributione è anco nel Regno de i Cieli, dicendo l’Apostolo nella prima à i Corintij, al terzo cap. Unus quisque propriam mercedem accipiet, secundum suum laborem. cioè. Ogn’un sarà premiato secondo la sua fatica. Pertanto; non essendo intentione di sant’Agostino, che la distribution monastica si faccia egualmente secondo l’istessa quantità della cosa, ch’è data; dice. Non è egualmente à tutti. Et per distinguer, ch’essa deve farsi, secondo la proportion delle persone, soggiunge. Perche non sete tutti d’egual dispositione, ma più tosto ad ogn’uno, secondo il suo bisogno. Questa proportione è chiamata da Ugone egualità di sufficienza, come diremo di sotto nel capit. 9. concio sia che all’hora una cosa si divide egualmente, quando chi la divide, da à ciascuno quello, che gli bisogna, come egli dice.
Cap. II. Come si debba considerare il valor delle persone nella distribution delle cose.
S’intende parimente il valor delle persone in doi modi, come vuole il Filosofo nel citato libro quinto dell’Etica.
In un modo, secondo la dignità della condition della persona, come s’è veduto nel capitolo precedente con l’esempio del capitano, del soldato, et del famiglio.
In un’altro modo, secondo l’utilità dell’opera, o della fatica, che si fà per la Republica. Vi si potrebbe aggiungere il terzo modo, secondo l’intention di sant’Agostino, et è questo, che’l valor della persona, si consideri, secondo la disposition della natura, sì che la distribution de i sani sia differente da quella de gl’infermi. Pero quelle sue parole, perche non sete tutti d’egual dispositione, si possono accommodare à tutti i tre modi predetti del valor delle persone, non considerandole in se stesse, et drittamente, secondo la dignità, o fatica, o disposition loro, ma principalmente, secondo il bisogno d’ogn’uno: Perche era tale era la distribution, che si faceva in quella santa congregatione Apostolica, la quale è scritto. Dividebatur singulis, prout cuique opus erat. cioè. Si distribuiva à ciascuno, secondo il suo bisogno. Dove dice la Glosa interlineare. Non secondo le persone, o i doni, che si facevano, ma secondo il bisogno. Percioche in quella moltitudine non era pari il valor delle persone, così quanto alla dignità, come quanto à i doni. Quanto alla dignità, perche v’eran gl’Apostoli, i settantadoi Discepoli, i sette Diaconi, et v’eran gl’altri fedeli convertiti di maggiore, et di minor dignità secolare. Quanto à i doni: perche alcuni portavano più, et alcuni meno, et mettevan quello, che portavano, à i piedi de gl’Apostoli, secondo la povertà, et ricchezza di ciascuno. Là onde in quella distributione non si considerava la dignità della persona, ne i doni, ma il bisogno d’ogn’uno, pero si dice in quel luoco, secondo il bisogno d’ogn’uno. Sant’Agostino parimente, (la cui Regola come habbiam detto tante volte, è fondata sopra gl’Atti de gl’Apostoli,) volse mirar solamente, et principalmente al bisogno, non escludendo pero la consideratione della dignità, della fatica, et della dispositione, poi che, se’l Preposito ha bisogno di molte cose più de gl’altri, (perche così ricerca lo stato suo, o per mantener l’ospitalità, o per sostentar conveniente famiglia, o per altre si fatte occorrenze;) non sarebbe cosa ingiusta, ch’egli nella distribution de i beni del monasterio ne havesse maggior portione de gl’altri, non perche è Preposito, ma perche ne ha maggior bisogno. Il medesimo si deve dir di quelli, che s’affaticano, à i quali non si da maggior portione per ricompensa dalle fatiche, (non dovendo niuna persona religiosa dimandar alcuna mercede temporal delle fatiche sue, ma aspettarne il premio eterno da Dio, per amor del quale deve affaticarsi;) ma sì ben, perche quelli, che s’affaticano in qualche officio, o servitio del commune, hanno bisogno di più larga portion de gl’altri per fornir più facilmente il negotio, che trattano, o perche affaticandosi, et stancandosi più de gl’altri, è cosa proportionatamente giusta, che sian più abondantemente riconosciuti, et possan meglio ricrearsi. A gl’infermi parimente non si deve dar maggior portione, perche siano infermi; (che tal’hora questo potrebbe esser loro di nocumento, et molte volte deveno haver manco de gl’altri;) ma perche deveno esser trattati differentemente da i santi, se ben non sempre con dar loro più de gl’altri, et dandosi qualche volta, non si farà per causa dell’infermità, ma perche ne haveranno bisogno.
Cap. III. Come la consideration predetta, intorno al valor delle persone, sia conforme all’intention della Regola di sant’Agostino.
Che questa fosse l’intention di sant’Agostino, si prova per la Regola sua, nella qual si vede, ch’i Prelati non deveno haver maggior portion de gl’altri, per esser Prelati, percioche se ben commanda, che s’honori il Prelato, quando dice. HONORE coràm vobis Prælatus vobis. cioè. Honorate il vostro Prelato, non dice pero, ch’egli sia meglio pasciuto, anzi accenna il contrario, dicendo. IPSE vero, qui vobis præest, non se existimet potestate dominante, sed charitate serviente, fœlicem. cioè. Ne si tenga felice il vostro Superiore per haver auttorità di commandare, ma per haver occasion di servir con carità. Perche la carità, che serve, si contenta delle cose communi. Et soggiunge. CIRCA omnes seipsum bonorum operum præbeat exemplum. cioè. Sia esempio à tutti di buone opere. Pero essendo la vita commune il principal fra tutti i beni della Religione, si conclude, ch’i Prelati non deveno, benche sian tali, haver maggior portion de gl’altri nella distribution comune. Di che il maestro nostro, ancor che fosse Vescovo, diede in se stesso l’esempio à i Prelati, non volendo usar vestimenti pretiosi, ne mangiar cibi delicati, come egli medesimo fa fede nel secondo Sermone, De communi vita clericorum, che comincia, Charitati vestræ, con queste parole. Sapendo io, che voglio, che sia commune tutto quello, ch’io ho, non voglio, che la santità vostra m’offerisca cose, che più si convenga, ch’io solo debba servirmene: se mi sarà dato un vestimento ricco, si converrà forse al Vescovo, ma non ad Agostino. Et seguita. Debbo haverlo tale, ch’io possa accommodarne un mio fratello, s’egli ne havesse bisogno: Et perche lo piglio dal commune, voglio, che sia tale, che si convenga anco al Sacerdote, al Diacono, et al Suddiacono. Quanto poi al viver suo, dice Possidonio, che scrisse la sua vita, ch’egli faceva una parca, et sobria mensa, et fra l’herbe, e i legumi, usava molte volte la carne per gl’infermi, et per i forastieri. Era parco, et povero à se, et à gl’altri ricco, et largo. Digiunava egli, et faceva i conviti à gl’altri. La sua porta era aperta à i viandanti, et la sua mensa serviva à i peregrini. Se i Prelati adunque non deveno haver maggior portion de gl’altri, per esser Prelati, deveno haverla, perche ne hanno maggior bisogno per i forastieri, per gl’infermi, et per l’altre persone, delle quali essi hanno la cura, et la pigliano, non per se, ma per gl’altri, et per havere ad amministrarla per il commune. Che à quelli parimente, ch’eran più ricchi, et più onorati al secolo, non si debba per la loro, o dignità, o ricchezza, dare alcuna cosa di più, et che dandosi, s’intenda data per l’infermità, et per i bisogni loro, lo dice chiaramente il Padre nostro nella Regola con queste parole. QUI INFIRMI sunt ex pristina consuetudine, si aliter tractantur in victu, non debet alijs molestum esse, nec iniustum videri, quos fecit aliqua consuetudo fortiores. cioè. Se quelli, che non posson partire, per non esser avezzi, son trattati differentemente nel vivere, non deve esser molesto à gl’altri, ne parere ingiusto à quelli, che con qualche uso si son fatti più forti. Et poco più oltra. ET SI eis, qui venerunt ex moribus delicatioribus ad monasterium, aliquid alimentorum, vestimentorum, operimentorumve datur; quod alijs fortioribus, et ideo fœlicioribus, non datur; cogitare debent, quibus non datur, quantùm de sua seculari vita illi ad istam descenderint, quamuis usque ad aliorum, qui sunt corpore firmiores, frugalitatem pervenire nequiverint. cioè. Et s’à quelli, che son venuti dalla vita delicata al monasterio, si da qualche cibo, vestimento, o altra cosa da coprirsi, che non si da à i più forti, et percio più felici, deveno considerar quelli, à i quali non si danno queste cose, quando quegli altri si sian ristretti, passando dalla secolare alla religiosa vita, benche non si sian potuti ristringer, come i più gagliardi di corpo. Pero, s’à questi, c’hanno vivuto delicatamente al secolo, et per l’habito della vita passata son riputati debili, si da alcuna cosa di più, ch’à gl’altri, è fatto con questa consideratione, ch’io ho predetto: L’istessa ragione si puo dir di quelli, che s’affaticano, perche se son trattati nel vivere altramente, cio si fa per rispetto dell’infermità, cioè, della fatica, et stanchezza loro. A gl’ammalati parimente non si da più larga portione per l’infermità, ma per la necessità, come mostra espressamente l’istesso padre nostro, dicendo. SANE, quemadmodum ægrotantes necesse habent minus accipere, ne graventur, ita, et post ægritudinem sic tractandi sunt, ut citiùs recreentur. cioè. Certamente, si come è necessario à gl’ammalati pigliar manco cibo, per non aggravarsi, così dopo l’infermità deveno esser trattati talmente, che possan più tosto ristorarsi. Ecco, come secondo la Regola di sant’Agostino, si considera ben quello, che vagliano le persone, ma pero in modo, che se son meglio trattate, non s’intenda fatto per il valore, ma per il bisogno loro, cioè, quanto una ha più bisogno dell’altra. Et egli vuole inferir questo, quando dice. Non egualmente à tutti, perche non sete tutti d’egual dispositione, ma à ciascuno, secondo il suo bisogno. Questo s’osserva nell’Ordine de i Frati Eremiti di sant’Agostino, dove non si da cosa alcuna à niuno per stato, per dignità, o per officio, ch’egl’habbia. Per il che la provisione, che si dà al Prior Generale, et à i Provinciali, non si da per la prerogativa della Prelatura, ma per le sopradette spese, che sono astretti à fare. A i maestri parimente non si da nulla per la dignità del loro stato, ma si ben per le spese, che quando pigliano il grado del Magisterio, sono sforzati à far ne i principij, et per altre occorrenze. Così ancora la provision de i vestimenti, et quell’altra, che si chiama settimanale, che son tassate dall’Ordine, si danno à i Maestri, à i Baccilieri, et à i Lettori per supplire à quello, ch’è necessario à gl’atti, che sono obligati à fare. Così à quelli, che s’affaticano, o per l’Ordine in commune, o per qualche convento in particolare, si provede solamente delle spese necessarie. Et questo si fa pure à i frati infermi, come s’è detto di sopra. Il medesimo si legge nella Regola di S.Benedetto, dove essa dice. Non diciamo, che ci sia accettatione alcuna di persone, ma si bene una consideratione dell’altrui infermità. Per il che, chi ha men bisogno, ringratji Iddio, ne s’attristi di non haverlo maggiore: s’humilij per l’infermità sua, ne s’insuperbisca per la misericordia, che s’usa con altri: Et in questo modo tutte le membra staranno in pace.
Cap. IV. Intorno à quali cose si faccia questa distributione.
Consiste questa distributione in due cose: Nel vivere, et ne i vestimenti, dicendo il maestro nostro nella Regola. DISTRIBUATUR unicuique vestrùm à Præposito vestro victus, et tegumentum. cioè. Sia distribuito à ciascun di voi dal vostro Preposito il vivere, e i vestimenti. Et l’Apostolo. Habentes victum, et vestitum, his contenti simus. cioè. Havendo noi il vivere, et i vestimenti, se ne debbiam contentare. San Gieronimo ancora in persona d’un certo buon Religioso, dice così. Com’io habbia da vivere, et da vestirmi, me ne contentaro, et nudo seguitaro la nuda Croce. Ben dice, nudo, perche proveda il commune ad un frate, quanto si voglia de i vestimenti necessarij, sarà pero sempre riputato nudo, quanto alla veste ch’egli porta, perche non è sua, havendo già rinontiato la facoltà di possedere, et la volontà d’havere. Ma dove dicono gl’Atti de gl’Apostoli, ch’era dato ad ogn’uno quello, che gli bisognava, si deve intender, (come dice Ugone, nell’esposition della Regola,) che le provisioni non si dessero sì largamente, che non s’havesse bisogno di cosa alcuna, et benche sia scritto, che fra quei fedeli non era alcun bisognoso, leggiamo anco esser scritto, ch’i proprij Apostoli servivano al Signore in fame, et sete, et freddo, et nudità. Le quali parole significano, che molti hanno bisogno col corpo, et non con l’animo. Ma quelli, che rinontiano se medesimi per amor di Christo, superan l’istessa natura con la virtù dell’amore. Era nella primitiva Chiesa tanta l’abondanza della gratia spirituale, che i fedeli non sol si contentavano di poca cosa, ma si tenevano ricchissimi, quando non havevano nulla, come dice il medesimo Apostolo. Nihil habentes, et omnia possidentes. cioè. Non havendo nulla, et possedendo ogni cosa. Pero, quando habbiamo il vivere, et i vestimenti, debbiam contentarsene. Ne in cio si deve mirare alla volontà della carne, ma alla disposition della natura, dimandando molto più l’appetito carnale di quello, che ricerca la necessità. Là onde dicendosi, che sia dato ad ogn’uno quello, che gli bisogna, s’intende, che s’habbia à far di modo, che da un canto il corpo sa nutrito, sì che serva, et dall’altro sia talmente affrenato, che non s’insuperbisca, et si satisfaccia alla necessità della natura, talmente che restino troncate le superfluità della concupiscenza.
Una persona devota, che soleva affliggersi con molte astinenze, mangiando una fiata per ristorare il corpo, vide, che’l demonio pien d’invidia le dava una intolerabil molestia, et diceva. Vedi golosa, che tu t’empi troppo. Ma essa conoscendo l’astutie sue, et che volontieri la sturbava, perc’havesse à venir meno per immoderata astinenza, schernendolo, tanto più mangiava, quanto esso le dava più noia.
Il medesimo inimico apparve in figura d’Angelo ad un frate, che teneva una vita molto austera, et gli mostro per alquanti giorni, mentre egl’era alla mensa, la forma d’un mezo pane, esortandolo à non ecceder, quando mangiava, quella misura. Prese colui il consiglio del demonio, ma puote à far quella penitenza poco tempo, perche incorse in una così gran debolezza di capo, che venne meno, et morì. Ho conosciuto un grand’Arcivescovo, c’haveva una sua sorella in un monasterio di monache, la quale havendo veduto una notte in sogno una sedia apparecchiata nell’inferno all’anima del fratello, ando à trovarlo, et glie lo scoperse, esortandolo à provedere alla salute dell’anima sua, l’Arcivescovo la tenne alcuni giorni seco, et le fece dar ben da mangiare: et poi di là à tre giorni le dimando, se in quelle notti s’era sognata alcuna cosa di lui, et rispondendo essa di no, le torno à dimandar, che cosa haveva mangiato il dì precedente alla visione, che gl’haveva narrato, la quale incontrato i tempi, disse, che molti giorni inanzi, c’havesse quel sogno, haveva fatto grand’astinenza, et mangiato poco, et cibi di poca sostanza. Cara sorella adunque; (replico l’Arcivescovo;) la disordinata astinenza è causa de i sogni terribili. Se voi havete mangiato all’hora così bene, come havete fatto quì, non hareste havuto una così spaventosa visione, et la rimando al monastrio. Pero nella distribution delle cose del monasterio, si deve tenere uno stile mediocre, talmente ch’al corpo si dia sufficiente sostentamento, et si fugga la superfluità.
Cap. V. Del viver commune de i frati, et che tutti vivano d’una medesima dispensa.
Deveno i frati vivere in commune, ma in questa communione, secondo l’intention di sant’Agostino, si ricercano quattro conditioni.
La prima delle quali è, che tutti vivano d’una dispensa.
La seconda che non mangino fuor del convento.
La terza, che fuor dell’hora di pranzo non si mangi anco nel convento.
La quarta, che mangino insieme alla mensa commune, dove sia continuamente la lettione.
Della prima dice il maestro nostro nella Regola. SICUT pascimini ex uno cellario, ita induimini ex uno vestiario. cioè. Si come vivete d’una dispensa, così vestitevi d’un vestiario. Dalla detta dispensa si deve provedere à ciascuno, secondo il suo bisogno, et si commanda al dispensiero, et à gl’altri officiali, che servano senza mormoratione à i lor fratelli, et diano senza indugio le cose, c’hanno in custodia, quando ne son ricercati, come ordina distintamente la Regola. Questo, per mio giudicio, è il più difficil punto, che ci sia. Perche quello, che si dice dell’obedienza, della continenza, della rinontiation de i beni propij, et d’altre così fatte virtù, mi par, che sia tutto facile ad un buon frate, cavandosi dal prontuario, o dispensa del cuore, ma dicendosi, che si deve dare ad ogn’uno quello, che gli bisogna; che i frati deveno vivere de i beni del commune, et altre si fatte cose, giudico, che sia molto difficile, non potendosi pigliar questa provisione dal prontuario del cuore, ma essendo necessario pigliarla dalla dispensa materiale, che il più delle volte non è abondante ne i monasterij poveri. Et pure è ferma intention di sant’Agostino, che s’osservi la communione del vivere, et si viva d’una medesima dispensa, ne possa alcuno tener una dispensa, o un luoco particolare, per riporre i suoi cibi, et proveder per se solamente, o mangiar da se, perche non sarebbe cosa conforme alla vita regolare, ch’egl’ha instituito, et sì fatte singolarità escono della strada della vita commune, anzi hanno sapor di proprietà, onde sono abhorrite totalmente da lui. Ma dirà alcuno. Se la dispensa commune non è tanto abondante, che possa supplire à i bisogni d’ogn’uno, come si potrà satisfar all’intention di sant’Agostino? A questo risponde egli medesimo nel Sermone tante volte citato, De communi vita clericorum, che comincia, Charitati vestræ, dicendo. Considerate, qual sia il gazofilacio, et tutti staremo bene. Mi sarebbe molto caro, ch’egli fosse il nostro presepio, et noi fossimo i suoi giumenti. Percioche il proprio figliuol di Dio, GIESU CHRISTO, è il nostro tesoro: esso è il presepio nostro, dal qual saremo pasciuti, se saremo suoi giumenti. Qual’è quel padre di famiglia, che non pasca il suo giumento? Et quanto più lo sarà un nostro così pietoso padre? Et nel Sermone, De margaritis regularis institutionis; parlando di quelli, ch’entrano nella Religione, dice così. Non voglio, ch’egli pensi più à quello, che gli bisogna, conoscendo il padre nostro i nostri bisogni. Cerchiamo adunque prima il Regno di Dio, et tutte quest’altre cose ci saranno date. Et nel decreto dell’osservanza regolare, dice. Si quis autem desiderat venire ad congregationem fratrum, qui in unum esse videntur, non ignoret Evangelij dictum, quod dixi. Abneget semetipsum, tollat crucem suam, et sequatur me, et ne tractet in corde suo de victu, aut vestitu, et cæteris, quæ necessaria sunt corpori, ipso Domino præmonente in Evangelio, et dicente. Nolite cogitare, dicentes, quid e detis, aut quo vestiemini: Hoc enim gentes cogitant: Scit pater vester, quia horum omnium indigetis. Quærite primum Regnum Dei, et iustitiam eius, et hæc omnia apponentur vobis. cioè. Et se qualcheduno desidera d’entrar nella congregation de i frati, che si vedono essere insieme, sappia il detto dell’Evangelio, quando dice. Rinontij se medesimo; pigli la sua croce, et mi seguiti: ne pensi al vivere, ne al vestirsi, ne all’altre cose, che son necessarie al corpo, poi che’l Signore ce ne ha già ammonito, dicendo nell’Evangelio. Non vogliate haver pensiero, trattando di quello, c’haverete à mangiare, o di quello, che vi bisognarà per vestirvi: perche i Gentili pensano à questo, e’l padre vostro sa, che tutte queste cose vi bisognano: cercate prima il Regno di Dio, et la giustitia sua, et tutte quest’altre provisioni vi saranno date. Et certamente non habbiam bisogno di molte cose, ne molto rare, perche, (secondo san Gieronimo,) la natura si contenta di poco, ma la consuetudine ve n’ha aggiunte molte, et molt’altre ne ha congiunte la volontà, e’l piacere. Ma se l’huomo, (come dice Ugone nell’esposition della Regola,) amasse Dio perfettamente, et rinontiasse affatto à i desiderij mondani, troncarebbe totalmente molte superfluità, che tiene hora quasi per necessarie. Impariamo per tanto ad amar Dio con tutto il cuore, sforzandoci per amor suo di contentarci delle cose necessarie, et di resecar le superflue, sì che non negandosi altrui quello, che gli bisogna, non sia alcuno, che chieda più di quello, che gl’è veramente necessario. La carità non cerca quello, che è suo: La carità antipone le cose communi alle proprie. Et s’alcuno la possederà, levarà à se stesso anco quello, che gl’è necessario, et così s’intendon le parole de gl’Atti Apostolici, registrate nel capitolo precedente. Et se faremo così, la dispensa commune supplirà à tutti i nostri bisogni: Ne il Signor GIESU Christo abandonarà, o lasciarà di pascere i suoi giumenti, che lo serviranno fedelmente, secondo quel detto del Salmo. Non vidi iustum derelictum, nec semen eius quærens panem. cioè. Io non ho veduto, che l’huomo giusto sia stato abandonato, ne che i suoi posteri habbian mendicato il pane. Se ne ha un’esempio nelle Vite de i Padri in un sant’huomo, à cui havendo offerto una persona molti denari, et dettogli. Tenete questi denari per spendere, hora, che sete vecchio, et infermo, (et era veramente infermo,) gli rispose. Tu dopo settant’anni sei venuto à privarmi di colui, che mi mantiene? Io son già molto tempo infermo, ne mai ho havuto bisogno di cosa alcuna, havendomi Iddio sovvenuto, et pasciuto; et così rifiutati i dinari, lo mando con Dio.
Et sant’Apollonio, essendo alloggiati seco molti frati per la festa della Pasqua, ne sapendo, come dar loro da mangiare, fece oratione, et subito furon veduti alle porte della spelonca alcuni huomini non conosciuti, che portavano in gran copia vivande d’ogni sorte, et come l’hebbero presentate à i monaci, si partirono in fretta, onde se ne fecero quei versi.
Patendo fame, i frati pregan Christo,
Et dal Cielo ogni cibo è lor provisto.
Cap. VI. Che niun frate deve mangiar fuor del convento.
Non deveno parimente i frati mangiar fuor del convento, come dice chiaramente il medesimo padre nostro nell’altra Regola, che comincia, Ante omnia, con queste parole. Nemo extrà monasterium sine præcepto manducet, neque bibat. Non enim hoc ad disciplinam pertinet monasterij. cioè. Niuno mangi, ne beva fuor del monasterio, se non gl’è commandato, essendo cosa aliena dalla disciplina monastica. Et nell’allegato Sermone, Charitati vestræ; dice così. Vi dico ancora, che trovandosi nella compagnia vostra qualche infermo, o convalescente, à cui sia necessario mangiare inanzi all’hora di pranzo, non prohibisco, ch’i fratelli, et le sorelle religiose gli mandino quello, che vogliono, ma non possa alcuno pransare, o cenar fuori del monasterio. Questo rigore osservo in se stesso il padre nostro, et fu uno de i tre documenti, ch’egli diceva d’haver havuto da sant’Ambrosio, et era questo. Non andare à i conviti, benche fosse invitato, solamente per non perder il modo della temperanza. Di questo ancora parla egli nel Sermone, De margaritis regularis institutionis, dicendo. Niuno ardisca di mangiar fuor del monasterio con secolari altro, che pane, ne bere altro, che acqua, ne mangiar nel monasterio fuor dell’hora del pranzo, eccetto ch’in caso d’infermità. Il che è conforme à quello, che vuol la Regola intorno alla terza conditione, dove dice. QUANDO aliquis non potest ieiunare, non tamen extrà horam prandij aliquid alimentorum sumat, nisi cùm ægrotat. cioè. Se è alcuno, che non possa digiunare, non pigli pero cibo alcuno fuor dell’hora del pranzo, se non, quand’è infermo. Et quand’egli dice non doversi mangiar fuor del monasterio, si deve intender con due limitationi, come si vede dalle proprie parole sue, poi che’l moderno stato dell’Ordine non comportarebbe, quant’all’officio della predicatione, et mendicità, che questo s’osservasse così strettamente. La prima limitatione è, che non si mangi fuor del monasterio senza commandamento, cioè senza licenza de i Superiori. Et questo accenna la prima auttorità allegata di sopra, onde seguita, che cio possa farsi con licenza, cioè; quando sia con dispensa de i Superiori. La seconda limitatione è, che non si mangi fuor del monasterio in quella città, o villa, nella quale, o appresso alla quale esso sarà posto per una certa distanza, che doverà esser limitata dal Superiore, ma non generalmente fuor del monasterio in ogni luoco. Perche occorre molte volte, ch’i frati si partono, non sol de i monasterij poveri, ma anco da i ricchi, et si discostano una, et molte giornate, et sarebbe impossibile, che si trovassero à mangiar personalmente nel monasterio, et è cosa certa, che l’auttor di questo precetto non ha voluto ordinar una cosa, che non si possa fare, et percio si deve dargli la predetta intelligenza, alla quale è consonante la terza auttorità, che dice. Niuno ardisca di mangiar fuor del monasterio con secolari altro, che pane, ne bever altro, che acqua. Et à questo proposito s’accommoda il cap. 20. là, dove dice verso il fine. I frati oltra di cio non bevano altro, che acqua nelle terre, dove l’Ordine ha qualche convento, fuor che co i chierici, et co i Religiosi. Per le terre nominate in quel luoco s’intendono, secondo il costume d’Italia, le città, et le castella, dove sono i monasterij dei frati. Una simile, et religiosa osservanza, ho veduto, et udito esser in alcuni solenni monasterij d’altre Religioni, come in quello di san Martino fuor delle mura di Turone, dove non è lecito ad alcun monaco, fuor ch’in caso d’infermità, bever, ne mangiare in modo alcuno fuor del convento per una certa limitata distanza, ne in convento fuor del refettorio, o sia Abbate, o sia monaco privato, benche fosse forestiero: La qual santa institutione mi ricordo io essere stata osservata con tanto rigore, che i frati non ardivano pur di bevere nelle case paterne, benche fossero pregati da i proprij padri, et madri loro: Et ho conosciuto un frate giovane, ch’essendo mandato dal Priore al Termino con un compagno, uscito di convento, ando à casa per licentiarsi da i suoi, et essendo invitato, et quasi sforzato à bever dalla madre, che molto l’amava, non volse compiacerla, per non romper nella casa propria una così lodevole osservanza della sua Religione, onde la madre non potendo comportare, ch’egli, e’l compagno facessero viaggio senza far collatione, empiuto un fiasco di buon vino, lo mando per un garzone fuori della città in un campo, dove essi havevano à capitare, accioche, se non havevano voluto bevere nella città, potessero, quando si riposavano in qualche praticello dalla stanchezza del camino; farlo di fuori.
Cap. VII. Che non deve alcun frate pigliar cibo fuor d’hora.
Che’l medesimo precettor nostro vieti, che non si mangi fuor d’hora, si vede chiaramente da quello, ch’esso dice nella Regola nel luoco di sopra allegato. Et questa è la terza conditione, che si ricerca nella vita commune, la quale è conforme alla tradition de i santi Padri; (la vita de i quali desidero d’imitar sant’Agostino ardentemente, come egli afferma nel suo Specchio, o Manuale;) percioche si leggono nelle Institutioni loro queste parole. I frati d’Egitto si guardavano con somma diligenza di non prender cibo alcuno fuor della mensa commune, talmente che quelli, che caminavano per gl’horti, et per i giardini di frutti, harebbon creduto di commetter un sacrilegio, gustando, o toccando qualche cosa. L’hora leggitima è dechiarata da Ugone nell’esposition della Regola, quando egli dice. Fuor d’hora crediamo, che sia sino alla Terza, percioche insino à quell’hora non è conveniente, ch’i Religiosi mangino, ne bevano, se non sono infermi. Per quelli, che non digiunano, ne sono infermi, pensiamo, che l’hora convenevole sia, dalla Terza sino alla Sesta, ma per quelli, che digiunano, dalla Nona sino alla sera. Et questo stile tenevano i santi padri Eremiti d’Egitto, che quasi sempre digiunavano, mangiando una volta il giorno communemente alla Nona, la quale è un’hora conveniente à chi digiuna più, che quella della sera, accioche non si senta per la gravezza dello stomaco qualche impedimento nelle orationi notturne, che molto spesso occorre à quelli, che sogliono prolungare il mangiar sino alla sera; come si legge nelle Collationi de i Padri; benche alcuni d’essi lo facessero. V’erano anco alcuni, che facevan digiuni di doi, et di tre giorni, ne mangiavano in questo spatio di tempo più, ch’una sola volta, come si trova nelle Vite loro. Altri rapiti in spirito si scordavano spesso di prendere il cibo corporale, per la qual causa ancora mettevano il Sabbato in una sporta sette pani biscotti, per saper, quando lasciavano alcun giorno di mangiare, et accio che finito il numero dei pani, quelli, che stavano nelle solitudini, potessero saper, quando tornava la solennità delle loro congregationi, che si faceva la Domenica. Dice sant’Agostino in un’Epistola scritta ad una sua sorella monaca, parlando della lor madre, santa Monica, che quella santissima serva di Christo hebbe tanta gratia nel digiuno sopra l’altre donne, ch’i giorni, ch’era chiamata alla cena, v’andava quasi per forza, et come, s’havesse havuto à pigliar un’amara medicina. Et soggiunge, ch’alcuna volta, poi che s’era communicata, le pareva d’esser tanto satia di quel celeste pane, c’haveva mangiato, che stava un dì, et una notte senza piglia alcun’altro cibo. Ne è meraviglia, leggendosi, che’l beato Giovanni Eremita stette tre anni in oratione sopra un greppo di montagna senza mangiar cosa alcuna, fuor che’l santissimo corpo di Christo le Domeniche, di che habbiam fatto mentione nel cap.19. del secondo libro.
Si legge anco nelle Vite de i Padri, ch’essendo capitato l’Abbate Silvano con Zacaria suo discepolo ad un monasterio, i monaci gli fecero mangiar un poco di pane, prima che se n’andassero. Dapoi essendosi partiti, et giunti ad un’acqua, il discepolo voleva bevere, ma l’Abbate gli disse. Zacaria: hoggi si digiuna, et rispondendo egli, c’havevano già mangiato quel giorno, gli replico il vecchio, che’l cibo preso era stato un’opera di carità, ma pero, che non s’haveva à romper il digiuno. Ecco, che quel padre giudico, che quantunque havessero mangiato fuor d’hora per quell’occasione, era, come se non havessero preso cibo alcuno, et volse continuare il digiuno sin’all’hora leggitima. Un simil esempio habbiamo di sopra nel cap. quinto del secondo libro. Quanto poi all’hora del mangiare, poiche sant’Agostino non ne fa special mentione nella Regola, si deve ricorrere alla consuetudine della Chiesa, et alli Statuti lodevoli di ciascun’Ordine, nel qual altri habbia deliberato per divina vocatione di servire à Dio: Ma secondo gli Statuti, et Constitutioni dell’Ordine de i Frati Eremiti di sant’Agostino, l’hora leggitima di mangiar ne i giorni di digiuno, sarà la Nona: ne gl’altri giorni, che si mangia due volte il dì; il pranzo potrà farsi passata la Terza, et la cena dopo il Vespro. Et s’alcun frate mangiarà fuor di quest’hore, overo anticipandole per gola, et senza causa leggitima, o mangiando molte volte oltra quelle, che son leggitime, sia certo, (non essendo infermo,) di contrafare alla Regola di sant’Agostino, secondo la quale ha fatto profession di vivere. Per la qual cosa ho veduto molti buoni frati di questa santa Religione, che ne per viaggio, ne in casa, bench’à tempi caldissimi, si sono assicurati di gustar fuor d’hora, ne vino, ne cervosa, ne uva, ne pere, ne mele, ne altri frutti, ne cosa alcuna di nutrimento. Là onde si conosce, quanta riprensione meritino quei frati, che per ogni occasione, c’habbiano di qualche cibo dilettevole al gusto, non si guardano di mangiare à guisa di bestie, il che senza dubbio nasce da vitio di gola, il qual secondo Ugone è di tre sorti.
La prima delle quali è, quand’alcun mangia, o beve smisuratamente.
La seconda, quando desidera il cibo troppo delicato.
La terza, quando mangia, o beve fuor d’hora. Nel qual proposito dice Giov. Cassiano nella Collatione dell’Abbate Moisè queste parole. Debbiamo star vigilanti per non incorrere in qualche dannosa licenza, et mentre desideriamo i piaceri del corpo, et non assicurarci di copiacere à noi medesimi nel mangiar inanzi il tempo deputato, et non ecceder la debita misura del cibo.
Nelle Vite de i Padri si fa mention d’un frate, ch’era tanto combattuto dal demonio, che subito ch’appariva il giorno, sentiva così gran fame, et così gran mancamento, che non poteva sopportarlo, per il che diceva fra se medesimo. Mi bisogna aspettar sino alla Terza, non essendo lecito al monaco mangiar, prima ch’à quell’hora. Venuta la Terza diceva pur seco medesimo. Adesso ancora m’è forza haver patienza sino alla Sesta: Come giungeva alla Sesta, metteva il biscotto à molle nell’acqua, et diceva fra se, mentre questo pan s’immollarà, verrà la Nona. Venuta la Nona forniva le sue orationi, et Salmi, come soleva, secondo la Regola, et poi si metteva à mangiare, et hebbe questa patienza per molti giorni. Finalmente havendo un giorno prolungato il pranzo dalla Prima sino alla Nona nel modo, c’ho predetto, et essendosi poi messo à seder per mangiare, vide uscir della sporta, dov’egli teneva il pane, un gran fumo, ne da quel dì avanti si sentì più fame, ne svenimento alcuno, anzi divento tanto gagliardo, ch’alcuna fiata non si curava di star doi giorni senza mangiare; et merito questa gratia, per haver fatto resistenza al demonio intorno all’hora leggitima del cibo.
Si trova anco nelle predette Collationi, che stando l’Abbate Serapione, quand’era giovane, in compagnia dell’Abbate Teona, haveva preso un costume per tentation diabolica, ch’ogni giorno poi c’haveva mangiato seco alla Nona, si serbava una pagnottella da mangiar di nascosto, ma era maggior il dispiacer, ch’egli sentiva nell’animo per quel furto, dapoi c’haveva mangiato quel pane, che non era stato il piacer, c’haveva sentito, mangiandolo, di maniera che finalmente pentitosi del peccato, c’haveva commesso, mangiando ogni giorno di nascosto, se ne confesso un volta con molte lagrime, et l’Abbate gli disse. Questa confession t’ha liberato hoggi da i lacci dell’inimico, et con maggior valor l’hai atterrato, confessandoti, che non haveva fatto egli, superandoti, et percio da qui inanzi questo maligno, et iniquio spirito non haverà forza di darti molestia più oltra. Non haveva fornito di dir ancora queste parole il buon padre, ch’uscendo una lampada accesa del seno del confidente, empì la cella d’un fetor sulfureo tanto noioso, ch’à pena egli, e’l giovane vi potevano star per la puzza, col qual segno Iddio volse mostrare, quanta fosse la virtù della confessione, et che l’Abbate haveva detto la verità.
Un frate portando certe frittelle in refettorio, instigato dalla gola se ne mise una in bocca in nascosto, onde fu assaltato da così grand’ardor di libidine, che non poteva resistere, come quello, ch’in tutta la sua vita non haveva provato una così fiera tentation di carne.
Fa mentione san Gregorio nel quarto libro de i Dialoghi d’un monaco molto stimato, il qual essendo all’ultimo passo della vita, disse tremando alla presenza di tutti i frati queste parole. Quando voi pensavate, ch’io digiunassi con voi, mangiava di nascosto, et hora son dato in poter d’un drago, perche mi devori, et subito morì.
Cap.VIII. Della lettion della mensa, et del silentio.
S’appartiene anco al buon ordine della vita commune, che si legga sempre qualche cosa alla mensa commune, quand’i frati mangiano insieme: Et questa è la quarta conditione, che si ricerca nella communion del vivere, della quale il nostro maestro nella Regola dice così. CUM acceditis ad mensam, donec inde surgatis, quod vobis secundùm consuetudine legitur, sine tumultu, et contentionibus audite, ne solæ vobis fauces sumant cibum, sed et aures esuriant verbum Dei. cioè. Quand’andate alla mensa, udite senza tumulto, et senza contender quello, che vi si legge secondo la consuetudine, sin che ve ne levate, accioche non solamente la bocca prenda il cibo, ma anco l’orecchie desiderin di pascersi della parola di Dio. Dove dicendo, alla mensa, et non, alle mense, accenna la mensa dover esser commune, altramente la lettion non haverebbe luoco, per le quali parole sono escluse le mense particolari, che si fanno in alcuni monasterij disordinati, non parlando hora della carità, che si deve fare à gl’infermi, et à i forastieri per esser ammesa, et dalla Regola, et dalle Constitutioni. Aggiungendo poi, sin che ve ne levate, vuole inferire, che la lettion deve esser continua in tutta la mensa, cioè per tutto quel tempo, ch’i frati stanno alla mensa. Quando poi dice, quello, che vi si legge secondo la consuetudine, vuol che si sappia, che questa sì fatta lettione, non è introdotta da lui per suo novo statuto, ma che ha havuto principio, et è stata prima osservata da i Padri antichi, leggendosi nelle loro Institutioni, che la lettion della mensa, non sol è stata osservata da i monaci d’Egitto, ma anco da quelli di Cappadocia. Et san Gieronimo, parlando d’Origene, ch’era stato circa duecent’anni inanzi à sant’Agostino, dice, ch’egli non soleva mai mangiar senza la lettion della sacra Scrittura. Et fu introdotta questa santa osservanza da i santi Padri per tre cause, come dice Giovanni Cassiano nelle citate Institutioni; le quali son queste.
Per prohibire i vani ragionamenti: Perche si fuggano le dannose contese: Et perche s’apprenda l’esercitio spirituale. Le quali tre cause son toccate appunto da sant’Agostino nelle dette parole della Regola.
La prima, quant’al prohibir gl’otiosi ragionamenti, dove egli dice senza tumulto, il che vuol dir con silentio, et l’esprime meglio nell’altra Regola, dicendo. Sedentes ad mensam taceant, audientes lectionem. cioè. Quando siedono alla mensa, tacciano, et odano la lettione. Si trova nelle citate Institutioni, ch’i monaci d’Egitto tenevano alla mensa così gran silentio, ch’in così gran numero di frati, non era chi havesse ardir pur d’aprir la bocca, ma sedevan tutti co i capucci più bassi, che le palpebre de gl’occhi, perche la vita non andasse curiosamente vagando, ne guardando altro, che la mensa, et quello, ch’era lor messo avanti, di maniera che l’uno non sapeva, che, ne quando mangiasse l’altro.
Il medesimo si contiene nella Regola di san Pacomio. Et se ben questo costume di tirarsi il capuccio sù gl’occhi, mentre si sta alla mensa, non è introdotto nelle cerimonie del nostro Ordine, nondimeno porta seco una morale instruttione, per la quale i frati sono avvertiti à non andar girando con gl’occhi intorno, ma à stare attenti à quello, che si legge, accio che essendo data miglior portione à qualcheduno, che sieda loro appresso, non habbiano à pensarci, ma contentandosi di quello, che vien lor posto inanzi, considerin, che quelli, che con maggior fortezza d’animo comportano la parsimonia, son più felici de gl’altri, come dice la nostra Regola, di che ne haverai gl’esempij più oltra nel cap.13.
Di quanta virtù sia poi il silentio, così nella mensa, come ne gl’altri luochi, et nell’hore deputate, lo mostra il padre nostro sant’Agostino in un Sermone à i frati Eremiti, dicendo così. Il silentio, fratelli charissimi, è à voi sommamente necessario nell’Eremo fra l’altre cose. Tutto quello, che non edifica, si rivolge in pericolo di chi parla, et di chi ascolta. La nostra lingua seguiti il nostro sentimento, et la ragione, non la volontà. Perche non sol debbiam tener gl’occhi chiusi, ma anco custodir le lingue fra i denti senza offesa, essendo i ragionamenti vani testimonij della vanità della conscienza. Et più di sotto. O monaco: considera, c’hai à render conto d’ogni parola otiosa, et tanto più, quanto sei meno obligato al mondo, perche non dei habitar nella piazza, ma nella cella, ne hai à pascer la famiglia pero non ti bisogna parlar molto, ne conversar fra gl’huomini. Et più oltra. O monaco: ascoltami attentamente, percioche è vana la religione di chi non affrena la lingua. Non è monaco, chi non custodisce la lingua. Chi modera la lingua, è prudentissimo, et vero monaco. Sù adunque, fratelli miei, amate il silentio, et mettete la guardia alla bocca vostra. Per questa causa anco il Padre maestro Alessandro, che fu già Prior General dell’Ordine, considerando la virtù del silentio, diceva in una sua esortation così. Gl’antichi padri prudentemente, et utilmente ordinorono per instinto dello Spirito Santo nelle institutioni dell’osservanza regolare, ch’in certi luochi, et tempi nel coro, ne i monasterij, et nelle habitationi de i Religiosi si tenne silentio, dal qual nasce la quiete delle menti, procede il profitto delli studenti, et s’accresce la devotion della contemplatione, et secondo il Profeta, (dove dice, Cultus iustitiæ silentium; cioè. Il silentio è il culto della giustitia;) per il silentio diviene il frate cultore, et osservator della giustitia, col mezo della quale egli impara à vivere honestamente, non offender niuno, et dare à ciascuno cio, che se gli conviene, per la qual disciplina è inalzato senza dubbio allo stato della perfettione qualunque la piglia bene. All’incontro, rompendosi il silentio, ne nasce l’inquietudine della mente, vanno scorrendo i frati, l’uno per la cella dell’altro, cessa lo studio, ne nascono le liti, ne crescon le discordie, et ne rimane impedita la devotion della contemplatione, et così il frate, quando doverebbe salire alla perfettione della devotione, perdutala affatto, come se cadesse da un precipitio, di religioso diventa tutto secolare. Quì fanno à proposito doi esempij notati di sopra nel capit. 27. del secondo libro, verso il fine. Et un’altro, ch’io raccontaro di Frate Franceschino da Ravenna, del qual si narra questa virtù; (oltra molt’altre, che rilucevano in lui;) che quantunque fosse sacerdote, et portinaio del medesimo convento, non volse mai romper il silentio nel chiostro, ne in altri luochi, dove si tien silentio, ma conduceva, chi voleva ragionar seco, dove non era vietato il parlare. La qual santa osservanza non poteva esser in modo alcuno senza le altre virtù, come mostro Iddio alla sua morte, essendo chiaro per molti miracoli, c’ha fatto, et fa tuttavia, de i quali segliero questo solo, ch’un’honorato cittadino stroppiato delle mani, et de i piedi, et talmente impedito di tutto il corpo, che non poteva muoversi, essendosi votato alla sepoltura di questo sant’huomo, et fattovisi portare in un carro con molti segni di devotione, subito giunto, gli si stessero, et sciolsero i nervi meravigliosamente, di maniera che lasciato il carro alla sepoltura, torno da se stesso con stupor d’ogn’uno sano à casa sua. Di molt’altri miracoli, c’ha fatto Dio per mezo di questo santo padre, si trova memoria nel convento nostro di Ravenna.
La seconda causa, per la qual s’introdusse la lettion della mensa, fu perche si fuggissero le dannose contese. Et questa è pure accennata da sant’Agostino, quand’aggiunge quelle parole, et senza contendere, perche soglion molte volte nascer delle contese, quando si mangia, come dice Gio. Cassiano nel medesimo luoco, pero è buona la lettion della mensa, per troncar ogni occasion di contendere, perche standovi tutti i frati intenti, non contendono insieme, et questo si dice delle contese, che si soglion fare, così de gl’assenti, come de i presenti. L’uno, et l’altro de i quali vitij abhorrendo sommamente sant’Agostino alla sua mensa, fece scriver questi versi in una tavola.
Chi con dett’aspri morderà l’assente;
Non deve à questa mensa esser presente.
Si legge anco, ch’egli riprese una volta tant’aspramente alcuni Vescovi, amici suoi molto domestici, che s’eran troppo liberamente allargati nel dir mal d’altri, che disse, che se non restavan di parlare à quel modo, o haverebbe tolti via i suoi versi, o si sarebbe levato da quella mensa, come veramente accadeva alcuna volta, perche se ne levava, et si ritirava nella sua camera, quando sentiva à parlare alla mensa di cose, che non s’havevano à dire, et s’alcun de i suoi commensali trascorreva in qualche giuramento, o in parole vane, voleva, che perdesse una volta da bere, dandosi il vino limitatamente à quelli, che stavano à mangiar seco per un numero determinato di volte, come dice Possidonio.
Un’esempio quasi simile, habbiamo di Ludovico Vescovo di Brandeborgo, il qual portando molta affettione all’Ordine nostro, et sentendo una volta, ch’alcune persone ne dicevan male alla sua mensa, ne cessavan d’accusarlo, bench’egli lo difendesse modestamente, al fine acceso di molto zelo, disse con sdegno queste parole. S’io non posso mangiare il mio pane in pace, mi levaro dalla mensa, perche non voglio sentire à parlar di questa maniera d’huomini così buoni. Di che coloro rimasero talmente spaventati, che tacquero, ne hebbero poi ardimento di ragionar più così alla sua presenza.
La terza causa; per la qual fu introdotta la lettione alla mensa; fu perche s’apprendesse l’esercitio spirituale, et è toccata parimente da sant’Agostino là, dove egli soggiunge. Accioche non sol la bocca prenda il cibo, ma anco l’orecchie desiderino di pascersi della parola di Dio. Et questa è una delle principalissime ragioni, che si possano addurre in questa materia, et pero egli la esprime con parole tanto chiare, essendo conveniente, et ragionevole, che come si pasce il corpo del cibo materiale, così l’anima si pasca della vivanda spirituale, che si prende con l’orecchie, che in questo officio son simili alla bocca, come le radici dell’arbore, poiche, quanto l’anima è più degna del corpo, tanto il cibo dell’anima, ch’è la parola di Dio, è più nobile del cibo corporale, pero egli con ragione disse. Accioche non sol la bocca prenda il cibo, ma anco l’orecchie desiderino di pascersi della parola di Dio. Il che vuol dire, ch’odano con molto desiderio, et fame la parola di Dio. Nelle Vite de i Padri si fa mention d’alcuni, che stavano attenti à i Salmi, alle lettioni della sacra Scrittura, et alle orationi con tanta dolcezza di mente, che si scordavano affatto del cibo corporale. Et vi si legge particolarmente, ch’un di quei santi padri ando una volta à visitare un’altro Eremita, il quale gli fece una lieta accoglienza, et mise à cuocer per la venuta sua una minestra, et in tanto deliberorono di dir alcune orationi, et Salmi, secondo il solito, et poi mangiare, et havendo cominciato à salmeggiare, forniron tutto il Salterio, et recitorono à mente doi Profeti delle scritture sante, come se gl’havessero havuti inanzi, et letti, di maniera che passo quel giorno, et la notte seguente, et torno altro giorno, che stando essi tuttavia in oratione, et cantando con gran fervore, s’accorsero al fine, che la notte era passata, nondimeno continuando à discorrere della parola di Dio, et dechiarando l’uno all’altro i sensi spirituali, verso l’hora di Nona si licentiorono insieme, e’l padre, ch’era venuto, torno alla sua cella, ne si ricordono di prendere il cibo apparecchiato, mentre havevano atteso à satiarsi del cibo spirituale. Venuta poi la sera, l’altro padre, trovata la pentola piena, com’era stata messa al fuoco, disse con dispiacere: Oh: come ci siamo scordati di mangiar questa minestra. Sono alcuni all’incontro, che tanto più avidamente mangiano, quanto più stanno intenti alla lettione, et quanto più fortemente v’applican l’imaginatione, come riferisce sant’Agostino di Licentio nel libro secondo, contra gl’Academici, il quale affermava questo essere occorso à molti, et specialmente à suo padre, dicendo. Io mi sono accorto molte volte, che mio padre, tanto più mangiava, quanto più era pieno di pensieri. Onde soggiunge sant’Agostino. Il che certamente mi fa meravigliare, considerando donde nasca, che bramiamo il cibo con maggior desiderio, quand’habbiam l’animo più occupato in altro. Sono alcuni altri, che pensano così avidamente al cibo corporale, che non attendono punto alla lettione. Ma la via di mezo, fra questi estremi, è virtù, la quale è, attendere alla lettione, talmente che non si mangi con soverchia avidità, et mangiar di maniera, che si possa attendere alla lettione. Tutto cio si prova chiaramente esser intention di sant’Agostino dalle citate sue parole. Quando andate alla mensa, udite senza tumulto, et senza contender quello, che vi si legge secondo la consuetudine, sin che ve ne levate, accioche non solamente la bocca prenda il cibo, ma anco l’orecchie desiderino di pascersi della parola di Dio.
Cap. IX. Del digiuno, dell’astinenza, et del mangiar de i frati.
Ma perche i desiderij della carne son contrarij allo spirito, et quei dello spirito son contrarij alla carne; deveno gl’huomini spirituali affrenar la concupiscenza carnale, per non esser superati da essa; il che senza dubbio si fa col digiuno, et con l’astinenza. Per tanto il Maestro nostro dice nella Regola. CARNEM vestram domate ieiunijs, et abstinentia escæ, et potus, quantùm valetudo permittit. cioè. Domate la carne vostra co i digiuni, et con l’astinenza del mangiare, et del bevere, quanto comporta la sanità. Et bench’egli non habbia lasciato scritto nella Regola, come habbiano à governarsi i frati di questa Religione nel mangiare, lo ha nondimeno insegnato con l’effetto, et con l’esempio suo proprio, come egli medesimo ha osservato, di che se ne parla nel Sermone, De prudentia, à gl’Eremiti, dicendo. Stando noi, fratelli miei, in questa solitudine, debbiam orar con ogni affetto, et patire, come quelli, che siamo obligati à sopportare ogni cosa con patienza, ne debbiamo haver ardimento di dire. I legumi son ventosi: il cacio aggrava lo stomaco: il latte nuoce alla testa: il petto non comporta l’acqua: i cavoli nutriscon la malinconia: i porri accendon la colera: i pesci non mi piacciono. Non vogliate dir questo, fratelli, non vogliate pur pensarlo, perche non habbiamo lasciato il secolo per viver delicatamente nell’Eremo, dove se ben non mangiate sempre latte, butiro, cavoli, et legumi, ma solamente i giorni solenni, et quando sete visitati dal santo padre, il Vescovo Valerio, et gl’altri giorni mangiate herbe crude, et pan d’orzo, et bevete acqua, non percio basta fare astinenza solamente col corpo, perche debbiamo anco conservar la mente monda. Et nel Sermone, De triplici genere monachorum, dice il medesimo padre à i detti suoi frati così. Non mangiamo carne, se non quando vengon forastieri, ma solamente herbe, et legumi senza butiro, et senza oglio, et com’io soleva far volontieri, quando viveva con voi. Pero io, fratelli miei, benche mi vediate nella catedra Episcopale, sento nondimeno molto piacere di tener la povertà per mia sposa. Ecco la vita, che faceva il padre nostro sant’Agostino, prima che fosse Vescovo, et dapoi. Egli nondimeno nell’altra Regola, (che comincia, Ante omnia, fratres carissimi;) concede, ch’i Sabbati, et le Domeniche possa bever vino, chi vuole, et quelli, che son vecchi, siano astretti à beverne, come egli commanda nel Sermone, De margaritis regularis institutionis; et Ugone espositor della Regola nostra nel secondo lib. De claustro animæ, al cap. 6. dice così. Tre circonstanze si deveno considerar nel cibo. Che: Quando: et Quanto mangiamo. cioè. La sorte del cibo, l’hora, et la misura, per non mangiar cosa illecita, o fuor d’hora, o fuor di misura. Cosa illecita mangio Adamo in Paradiso, come si legge nel terzo cap. del Genesi, et ne fu cacciato da Dio. Fuor d’hora mangio Gionata, et fu maledetto dal padre, come fa fede il cap.13. del primo de i Rè. Il popolo d’Israel si satia à i sepolcri della concupiscenza fuor di misura, et è ammazzato, come si trova nel cap.11. del libro del Numero. Fa Adamo contra il commandamento di Dio: Rompe Gionata l’osservanza di tutto il popolo: E’l popolo d’Israele è ingannato dalla satietà del cibo: Et così la trasgressione merito l’espulsione, il disprezzo del voto commune la maledittione, et la satietà la morte. Quanto alla sorte dei cibi, soggiunge questo il medesimo Ugone nel luoco allegato. Mangino de i frutti de gl’arbori, et di quello, che produce la terra, butiro, oglio, et latte. Non condiscano le vivande col grasso, s’astengano dalle carni, se pero non fosse conceduto ad alcuno per necessità, o per dispensa fuor del convento. I frati potranno usare il vino in convento. Ma pero deveno molto guardarsi, che quello, che si concede per compassione, non sia dimandato, (come soglion fare alcuni,) per debito. Dell’hora s’è parlato nel cap. precedente. Della misura aggiunge egli questo nel luoco citato. Nella misura deve esser egualità, non di quantità, ma di sufficienza. Pero dice sant’Agostino. Non æqualiter ominibus, quia non æqualiter valetis omnes. cioè. NON egualmente à tutti, perche non sete tutti d’egual dispositione. Questa non è egualità di quantità, ma di sufficienza, perche una cosa si divide egualmente, quando colui, che fa la divisione, la compartisce fra tutti, secondo il bisogno d’ogn’uno.
Ma perche à questi tempi la natura è fragile, per sopportar una così stretta vita; et specialmente, perche, come s’è detto, la consuetudine ha aggiunto molte cose alla necessità; i frati moderni, non son tenuti per obligo di legge alcuna à così rigorosa osservanza, perche, quantunque sant’Agostino, et quelli, che lo seguitorono, l’habbiano osservato, egli per tutto cio non ha obligato altrui nella Regola ad osservarlo per legge. Per la qual cosa io giudico, che quanto à i cibi, et à i digiuni, basti hoggi à i frati, per salvarsi, obedire alla Regola, et alle Constitutioni, che deliberan molte cose particolarmente, che la Regola commanda universalmente.
Cap. X. Della buona, et santa singolarità de i frati.
Ma perche, si come alcuni non si curano talvolta d’osservare i digiuni, et l’astinenze scritte, così alcuni altri si sforzano di far più di quello, che sono obligati; se sarà, chi voglia; oltra quello, ch’è ordinato; fare altri digiuni, et astinenze, (astenendosi, come dice san Gregorio, dalle cose lecite, quando si ricorda d’haver commesso le illecite;) farà per certo opera lodevole, facendola con discretione, et con licenza de i Superiori, et senza scandalo. Per la qual cosa, chi vuole imitar sant’Agostino, et i suoi primi frati ne i cibi, et ne i digiuni di quel modo, c’habbiam toccato nel cap. precedente, et nell’altre opere di sopraerogatione, potrà farlo molto bene, osservando le tre già dette circonstanze, delle quali si parlarà più à pieno nel cap. che seguita. Chiamo io opere di sopraerogatione nell’Ordine tutte quelle, alle quali altri non è obligato per precetto, ne per statuto della Chiesa, ne per Regola, o Constitutioni, o deliberationi dell’Ordine suo, come sono i digiuni, et l’astinenze speciali, l’orationi particolari, e’l castigar la carne con vigilie, con discipline, con cilicij, et con altri modi aspri, che eccedono la commune osservanza scritta dell’Ordine. Le quali opere ogn’un puo pigliarsi à fare, quanto comporta la propria disposition del corpo, come fecero nell’Eremo quei primi padri del monsterio di sant’Agostino, de i quali esso nel Sermone, De triplici genere monachorum, dice questo. Non sol hanno voluto esser poveri, ma anco avanzar quello, c’habbiamo ordinato noi, nello Specchio, o Regola nostra. Ne questo è contrario, anzi è molto conforme all’intention della Regola, che dice. CARNEM vestra domate ieiunijs, et abstinentia esce, et potus, quantùm valectudo permittit. cioè. Domate la carne vostra co i digiuni, et con l’astinenza del mangiare, et del bevere, quanto comporta la sanità. Per il che ogn’uno potrà farsi da se l’ordine rigoroso, et aspro, come vorrà. Ne è necessario, che altri, allegando la larghezza della sua Religione, voglia passare da un’altra più stretta, quasi per voler tener miglior vita, come è avenuto ad alcuni, c’ho conosciut’io, perche quelli ne sono stati tentati per suggestion diabolica, dicendo voler vivere più strettamente, ne pero hanno satisfatto alle più facili osservanze della propria Religione.
Il beato Nicola da Tolentino; oltra i digiuni, et l’astinenze, che commanda l’Ordine; s’esercitava in molt’altre opere di sopraerogatione, percioche non si sa, ch’egli in trent’anni mangiasse mai carne, ne ova, ne pesci, ne cosa alcuna di grasso, ne latticinij, ne frutti, o sano, o infermo, che fosse. Pero essendo una volta ammalato, et dubitando i frati della sua debolezza, chiamorono i medici contra sua voglia; havendo egli posta ogni sua speranza in GIESU Christo medico dell’anime; li quali desperati della sua vita, lo consigliorono à mangiar della carne, ma non volendo esso consentirvi in modo alcuno, gli licentio. Per il che il Priore, veduto il pericolo l’esortava ad accettare il lor consiglio. Ma il sant’huomo rispose à lui, et à gl’altri frati così. A che fine, o buon Priore, et voi fratelli miei, mi date molestia? Non sapete, che questo misero corpo procura di ritornare al cibo delicato, c’ha gustato una volta? Pero perdonatemi, vi prego, perche è meglio raffrenare, che lasciar la briglia in libertà à questa carne, accioche l’anima sepolta nelle fosse de i peccati, non resti condannata. Il Priore adunque, non potendo rimuover’il sant’huomo da quel proposito, ando à trovare il Prior Generale, ch’era in quel luoco, et gli conferì il pericolo, in che egli si trovava la sua ferma risolutione, et quello, c’havevan consigliato i medici. Onde il General visitatolo, dopo molti esempij, et esortationi, gli commise in virtù di santa obedienza, ch’esequisse il consiglio de i medici, et mangiasse carne. Il sant’huomo non haveva ardir di disobedire, et nondimeno non havrebbe voluto essere sforzato à mangiarla. Per tanto chiamato il Priore, gli disse. Io sono obligato ad obedire al Padre Generale in ogni modo, havendolo promesso, et offerto al mio Salvatore, alla santissima sua madre, et à sant’Agostino, et sempre bramato d’osservarlo sino alla morte. Il Priore adunque, et l’infermiero, apparecchiatagli la carne, gliela presentorono, perche ne mangiasse. Egli posto fra la gola, et l’obedienza, quasi fra doi pericoli, rimase combattuto da diversi pensieri: Finalmente presone un bocconcino, disse. Ecco, ch’io ho obedito: non mi date più noia, ne mi tentate più del peccato della gola. Et così accostandosi al consiglio del maggior medico co i cibi consueti, et senza carne, ne medicina temporale, si risano miracolosamente per virtù de i rimedij celesti. La maggior gloria, ch’egli havesse, era la strettezza dell’astinenza, pero domava la carne, quando dalla disposition del corpo gl’era permesso perche oltra quello, c’ho detto, faceva anco più stretta astinenza, digiunando la seconda, la quarta, et la sesta feria in honor della beata VERGINE, e’l Sabbato solamente con pane, et acqua. Ma colui, c’ha superato i primi nostri padri con l’arme della gola, et tentato il Salvator nostro del medesimo vitio, si sforzava di superar questo santo padre ancora, mettendogli inanzi il trattamento, che si faceva à gl’altri frati nel vivere, et ch’egli pativa tante infermità, et specialmente dolori di giunture, affanni di stomaco, debolezza di capo, vertigini, et offuscationi d’occhi, et di vista, che procedevano dalla sua rigorosa astinenza. Pero stimolato da simili pensieri, molte volte si turbava, et diceva fra se. Forse, ch’essend’io peccatore, l’astinenza, ch’io faccio, non è grata à Dio. Ma aiutami tu Dio mio: Difendi tu l’anima mia, perche se tu Signore non mi dai soccorso, poco mancarà, ch’essa non habiti nell’inferno. Il pietosissimo Principe, et signor nostro GIESU Christo adunque, non volendo, che’l suo campione, che combatteva nel campo della tentatione, fosse vinto, gl’apparve in sogno, et gli disse. Nicola: non t’attristare, ma rellegrati, perche l’opere, che tu hai cominciato à fare, mi piacciono. Al suono della qual voce, svegliatosi il santo padre, disse. Lætatus sum in his, quæ dicta sunt mihi. Et da indi inanzi assicuratosi, s’oppose allegramente à così fatte tentationi, di maniera che continuando con maggior fervor, che prima dell’incominciata astinenza, fu assalito dalla febbre, et cadde gravemente infermo, procurandolo quell’inimico, c’hebbe potestà da Dio sopra il corpo del beato Giob, per tirare à se con l’infermità colui, ch’egli non haveva potuto vincer con le tentationi della gola. Sentendosi adunque il sant’huomo così indebolito, che si dubitava della sua vita, et accorgendosi, che questa era una tentation diabolica, si raccommando alla gloriosa VERGINE, et à sant’Agostino, et subito preso da un piacevol sonno, se la vide apparire inanzi con meraviglioso aspetto insieme col predetto Santo. Per il che mirandola con grande stupore, proferì queste affettuose parole. Chi sei tu Signora, che ti sei degnata di venire in così mirabil modo à me, che non sono altro, che polvere, e cenere? A cui essa rispose. Io son la madre del tuo Salvatore, c’hai chiamata tante volte in aiuto tuo insieme con Agostino, che tu mi vedi appresso. Ecco, che siam venuti per insegnarti il modo di rihaver la sanità, et dicendo questo stese un dito verso la piazza, et seguito. Manda colà à chieder ad una di quelle gentil donne un pan fresco per te in nome di GIESU Christo figliuol mio, et havutolo bagnalo nell’acqua, et mangialo, et tornarai sano. O Vergine prudentissima, come ben consigliasti il servo tuo, che non gustava cibo alcuno con tanta soavità, quanta sentiva in quelli, che si mendicavano per amor del tuo figliuolo: Et per mostrar, che la sua astinenza era grata à lui, et à te, gli rendi la sanità col cibo dell’astinenza. Destandosi adunque il sant’huomo, desto anco colui, che lo serviva, et senza scoprirgli la visione, lo mando al luoco mostratogli à dimandar quel pane in nome di GIESU Christo. Il servente, havuto il pan fresco da una gentil donna, l’immollo allegramente nell’acqua, et glielo diede à mangiare; il qual fattogli prima il segno della Croce, et presane una particella, resto incontinente libero da ogni male. Che altro diro dell’astinenza sua, poi che non havendo più, che sett’anni, comincio à digiunar tre giorni della settimana, imitando in cio il devotisimo Vescovo san Nicola, che quando lattava, s’asteneva la seconda, la quarta, et la sesta feria dall’istessa poppa della madre? Fu adunque molto conveniente, che non patisse nella fanciullezza colui, ch’in vecchiezza doveva far molto maggior astinenza, che non comportava quell’età. Pero non è meraviglia, s’essendo vecchio, digiunava tanto, havendo fatto così grande astinenza, quand’era fanciullo. Ne solamente faceva il corpo servo dell’anima col digiuno, et con l’astinenza, ma anco con le battiture, et con altre pene. Dormiva sù la paglia alcune poche hore della notte, et si levava ordinariamente all’oratione, castigando la propria carne con una catenella di ferro. Usava le toniche aspre, et rappezzate, et havendo in odio le delitie del corpo, fuggiva i vestimenti morbidi, considerando quello, che dice l’Evangelio. Ecce, qui mollibus vestiuntur, in domibus Regnum sunt. cioè. Ecco, che quelli, che portano i vestimenti delicati, stanno ne i palazzi de i Rè. Stava il giorno, et la notte in oratione, et teneva doi sassi nella cella, per inginocchiarsi sù l’uno, et appoggiar le braccia sù l’altro, quand’era molto stanco dalla fatica dell’oratione, accioche se si riposavano dalla stanchezza, fossero macerate dalla freddezza della pietra. Finalmente oltra ch’affliggeva, et castigava il proprio corpo del continuo, et crudelissimamente, bene spesso era ancora aspramente battuto, et impiagato da i demonij, come habbiam detto di sopra nel capitolo 15. del secondo libro.
Si legge parimente, che’l beato Agostin da Terano, era molto austero à se medesimo nel mangiare, et nel bevere, ancor che al secolo fosse stato avezzo à cibi delicatissimi, et quand’entro nella Religione, non si curava d’altre vivande, che grosse, et vili, ch’usavano communemente gl’altri frati, oltra che soleva mangiar solamente una volta il giorno, et così mentre fu penitentiero del Papa in Roma, come anco nel tempo del suo Generalato, uso sempre cibi communi, se pero alcuna volta non era sforzato à fare altramente, o per infermità, o per hospitalità, ma pero non mangiava più d’una volta il dì, et pesava il pan, che doveva mangiare, ne haveva à passar quindici oncie, satisfacendo in cio al bisogno del corpo, più tosto, ch’ad alcun piacer, ch’egli ne sentisse.
Molt’altri frati del medesimo Ordine ho veduto, et inteso essersi castigati, et afflitti da se stessi in diversi modi, et essersi sforzati di render le proprie carni totalmente obedienti allo spirito. Alcuni de i quali si maceravano con una meravigliosa astinenza, altri digiunavano à certi tempi tre giorni continui in questo modo, che’l primo dì non mangiavano, se non un boccon di pane, il secondo doi, il terzo tre. Alcuni altri si astenevano per amor di Dio dal vino, altri dalle carni, et molti non mangiavano alcun cibo cotto. Altri dividevano i cibi, ch’eran lor dati per metà, mangiandone una parte, et lasciando l’altra, per fare astinenza, et perche ne fossero sovvenuti gl’altri poveri. Non mancavano di quelli, che si battevano con catenelle di ferro, o con piccioli nodi pungenti, o con bacchette: et tal’hor doi à vicenda si battevano santamente l’un l’altro. Alcuni si maceravano le membra portando i cilicij, et le camiscie di ferro sù la carne, et altri con cerchi di ferro si cingevano tutto il corpo: et molti con dure, et aspre corde fatte di peli d’animali à carni nude. V’erano anco di quelli, ch’in luoco di letto usavano duri, et grossi graticci di legno, et di quelli, che si mettevano sotto pietre, et legni, dove dormivano. Con simili, et altre discipline di più sorti, molti frati di questa santa Religione, ch’io ho conosciuto un tempo fa, accrescendo in se stessi il rigor dell’Ordine, domavano la carne, quanto potevano, facendo anco molt’altri innumerabili esercitij, che non erano obligati à fare, et son nascosti il più delle volte à gl’occhi de gl’huomini, et palesi à Dio solamente, che vede i cuori nostri, et premia ogn’uno secondo l’opere.
Cap. XI. Di tre compagne della buona singolarità.
Ma la predetta singolarità de i frati, accioche si possa chiamar buona, et santa, deve haver tre compagne, le quali son queste. Licenza: Discretione: et Cautione dallo scandalo.
La prima compagna della buona singolarità è la licenza del Superiore, overo il consiglio del padre più vecchio, quanto à quelli, che non son sottoposti all’obedienza, perche gl’altri, che militano sotto l’altrui obedienza, non potendo dispor del proprio corpo, anzi non havendo alcuna libertà di volontà, non possono in modo alcuno dedicarsi ad alcuna particolar astinenza, o disciplina, senza licenza del Superiore, ch’è un certo condimento, senza il qual poco vale qual si voglia opera religiosa, et quello, che senza di essa si fa, s’attribuisce più tosto à vanagloria, ch’à mercede, come si dice nella Regola di san Benedetto, et come diremo noi nel capitolo seguente.
Per tanto Gio. Cassiano nella Collation seconda dell’Abbate Moisè, dice, che la regola della vera discretione richiede, che non habbiamo ardire di far da nuovo, ne deliberar, secondo il nostro giudicio, cosa alcuna, ma che ci sottomettiamo totalmente, et sempre al giudicio de i maggiori, et in questo modo ogn’uno viverà sicurissimo da tutte l’insidie dell’inimico, percioche il demonio non conduce l’huomo al precipitio della morte, col mezo d’alcun’altro vitio più facilmente, che col persuaderlo ad operar ostinatamente, secondo il giudicio, et appetito suo senza il consiglio del Superiore. Questo si prova con l’esempio d’un padre, c’havendo tenuto per lungo tempo uno spirito di satanasso per un’Angelo di luce, rimase ingannato dalle sue spesse rivelationi, havendogli commandato una volta, che sacrificasse à Dio un suo figliuolo, ch’era nel monasterio, perche così facendo non sarebbe stato inferior di merito ad Abraam, et egli l’haverebbe fatto, se’l figliuolo accorgendosi, che’l padre voleva legarlo, et vedendo il coltello, non fusse fuggito.
Si legge anco d’un’altro, che per inganno diabolico ammazzo il padre: et d’un’altro, che per suggestion dell’istesso nostro inimico si fece circoncidere.
Ne alcun di questi sarebbe stato così bruttamente schernito, s’havesse osservato la regola della discretione, o si fosse governato col consiglio de i più vecchi. Là onde dice il cap.13. de i Proverbij. Astutus omnia facit cum consilio. cioè. L’huomo astuto fa ogni cosa con consiglio.
La seconda compagna della buona singolarità è la Discretione, la quale, come dice Gio. Cassiano, è madre, governatrice, et conservatrice di tutte le virtù, et senza la quale molti affaticandosi con tutto il poter loro, sono al fin caduti dalla cima di esse. Pero l’Apostolo nell’Epistola à i Romani al cap.12. parlando del castigo del corpo, dice questo. Obsecro vos per misericordiam Dei, ut exhibeatis corpora vestra hostiam viventem, sanctam, Deo placentem, rationabile obsequium vestrum. cioè. Vi prego, quanto più posso, per la misericordia di Dio, ch’osserviate i corpi vostri per hostia vivente, santa, che piaccia à Dio, et per un ragionevole ossequio vostro. Dove dice la glosa, che ossequio ragionevole s’intende, che sia fatto con tal discretione, che non s’eccedano i termini della ragione, ma i corpi sian castigati temperatamente, si che non restino annichilati per mancamento di natura, ma sì, che muoiano à i vitij. Per il che il Maestro nostro del Sermone. De cœna Domini, à i frati Eremiti, dice così. Debbiam macerare il corpo, ma non ammazzarlo, anzi debbiam sostentarlo col mangiare, et col bevere, quanto ricerca la sanità, perche così vuole Iddio: Così dice l’Apostolo, et così ho commandat’io à voi miei fratelli. Pero v’esorto, v’avvertisco, et vi commando strettamente, che non domiate la carne più di quello, che puo comportar la natura. Perche vedend’io, che son fra voi alcuni vecchi di sessanta, alcuni di settanta, et d’altri di cent’anni, che infervorati dell’amor divino, crocifigono i corpi loro, non bevendo pur vino; dubito, che non offendano più tosto, che plachino Iddio. A questi commetto nel nome di Christo, ch’almen le Domeniche, et gl’altri giorni solenni bevan vino. I giovani veramente, che son robusti, et già cominciano à trionfar de gl’inimici, faccian penitenza nel nome di Christo, per non esser superati da loro. Perche voglio così, et così ho ordinato, che s’osservi, et facendolo non ammazzaremo i corpi nostri, ma staranno in servitio del lor Creatore. Et Giov. Cassiano nella citata Collation seconda dell’Abbate Moisè, dice questo. Con maggior pericolo inganna l’immoderata astinenza, ch’una licentiosa satietà, poi che per questa si puo ascendere alla misura della strettezza col mezo della salutar compuntione, ma per quell’altra non si puo, giungendo l’intemperato digiuno, et voracità ad un medesimo fine, essendo necessario, ch’ogn’uno, che s’è indebolito per qualche smisurata astinenza, ritorni in quello stato, nel qual si trovano i negligenti per poca cura, di maniera che molte volte, s’è veduto esser stati vinti da i disordinati digiuni quelli, che non si son potuti ingannar con la gola, et con l’occasion dell’infermità esser ricaduti in quella medesima passione, c’havevan già superata. Le vigilie, et dimore notturne parimente essendo fatte senza ragione, hanno atterrato quelli, che non si son lasciati vincer dal sonno. Al qual proposito servono gl’esempij raccontati nel cap.4. del presente libro. Mette anco il predetto Padre, et Abbate Moisè nell’istesso luoco l’esempio di se stesso dicendo. Mi ricordo d’essermi molte volte così poco curato di mangiare, che se bene stava doi, o tre giorni senza prender cibo alcuno, niuna memoria di vivande mi molestava la mente, et mi sovviene d’haver talmente perduto il sonno per la battaglia, che mi dava il demonio, c’ho pregato Dio molti giorni, et notti, che me ne mandasse alcuna picciola particella, provando chiaramente, ch’io era in maggior pericolo per haver à noia il cibo, e’l dormire, che per la battaglia del sonno, et della gola. Pero debbiam caminar secondo l’Apostolo col governo della discretione, per l’arme della giustitia, et per la strada regia fra l’uno, et l’altro di questi eccessi, talmente che non ci lasciamo sviar dallo stretto sentiero dell’astinenza, ne passiamo con una nociva libertà nel peccato della gola.
Recita il predetto Abbate Moisè doi esempij à questo proposito; l’uno d’un padre, ch’era vivuto cinquant’anni nell’Eremo in una rigorosissima astinenza, et dapoi molte fatiche per inganno del demonio s’era messo à digiunar tanto strettamente, et tenere una vita così austera, che digiunava anco il giorno di Pasqua, ne si curava di trovarsi in qual solennità si fosse alla chiesa con gl’altri monaci, per il che accecato dalla presontione, ricevendo l’angelo di satanasso con somma veneratione, per suo consiglio, si pecipito in un profondissimo pozzo, persuaso, che per i meriti delle sue virtù non poteva esser sottoposto ad alcun pericolo, et indotto con inganno à farne quella prova.
L’altro esempio è di doi frati, che caminando per un’eremo grandissimo, si risolsero di non pigliare altro cibo, che quello, che fosse lor mandato da Dio. Per il che havendo errato lungamente per quella solitudine, et trovandosi molto afflitti per la fame patita, s’incontrorono in alcuni ferocissimi huomini, che quantunque assaltassero le persone più per natural crudeltà, che per desiderio di preda, nodimeno offerirono à i frati del pane contra la propria fierezza loro, l’uno de i quali, usando la discretione, l’accetto allegramente, et ne rese gratie à Dio, come di cosa mandatagli da lui: L’altro rifiutandolo, come dato dall’huomo, non da Dio, si lascio morir di fame, non considerando, ch’era la volontà di Dio, ch’una gente barbara, quasi dimenticata la nativa inhumanità, in luoco de i coltelli, havesse loro offerto il pane.
Ma dimanda Germano nel luoco allegato, et dice. Qual modo d’astinenza terremo noi, ch’usandolo con egual misura, possiam passar sicuri fra l’uno, et l’altro di questi estremi? A cui rispone Moisè. Di cio sappiamo, che molte volte hanno trattato i nostri maggiori, percioche esaminando sottilmente le continenze di molti, che vivevano continuamente di legumi, o d’herbe, o di pomi, hanno antiposto à tutti questi cibi il pan secco, restringendolo in doi piccioli pani biscotti d’egual grandezza, che senza dubbio alcuno à pena giungevano ad una libra di peso. Si dice parimente così nella Regola di san Benedetto. Una libra di pan per testa basti ogni giorno, così per mangiare un volta sola, come per il pranzo, et per la cena, ma quando alcuno cenarà, doverà il dispensiero ripor la terza parte della medesima libra, per havergliela poi à rendere, quando cenarà. Il beato Agostino da Terano similmente si contentava di quindici oncie di pane il giorno, come s’è detto di sopra nel precedente cap. Ma perche difficilmente posson mangiar tutti ad una mensa, per tanto l’Abbate Moisè soggiunge. Il modo generale della continenza è, ch’ogn’un prenda il cibo, secondo la disposition delle forze, o del corpo, o dell’età sua, quanto gli bisogna, per sostentarsi, non quanto desidera, per satiarsi. Pero quella è temperata misura di continenza, ch’è stata approvata dal giudicio di quei padri, cioè, ch’un quotidiano desiderio di mangiare accompagni il cibo quotidiano, et conservando in un’istesso stato il corpo, et l’anima, non lasci perir quello per l’austerità del digiuno, ne che s’aggravi la mente con la soverchia satietà.
Nelle Institutioni de i Padri si fa mentione à questo proposito d’un monaco, il qual benc’havesse mangiato sei volte in un giorno, per satisfare all’officio dell’hospitalità, conservo sempre la voglia di mangiare. Pero dice san Gieronimo. Il cibo moderato, e’l ventre, che sempre desideri di mangiare, s’antipongono à i digiuni di tre giorni continui.
La terza compagna della buona singolarità è la cautione dallo scandalo, cio vuol dire, che nell’opere singolari si veda sempre di fuggir lo scandalo. Perche se ben non si deve restar di far l’opere, che non si posson tralasciar senza peccato mortale, per fuggir lo scandalo; quelle pero si deveno lasciar di fare, che si posson fare, et non fare senza peccato mortale per fuggir lo scandalo, et per la medesima causa farle. Per tanto dice l’Apostolo nella prima Epistola à i Corintij, all’ottavo capitolo. Si esca scandalizat fratrem meum, non manducabo carnem in æternum. cioè. Se’l cibo scandaliza il mio fratello, io non mangiaro carne giamai. Questo medesimo dice Papa Innocentio terzo nel cap. Cum ex iniuncto. extra, De novi operis nuntiatione. Si conclude adunque, che dove s’antivede, che possa nascer qualche scandalo, si deve lasciar la singolarità in palese, et osservarla in occulto, quanto più si puo, accio che i frati siano in publico eguali à gl’altri, et in secreto singolari. Quali sian poi gli scandali, che possan nascere dalla detta singolarità, si dechiararà nel seguente capitolo.
Cap. XII. Della cattiva singolarità de i frati nel pigliar meno.
Dove adunque non saranno insieme le tre sopradette compagne, la singolarità sarà giudicata riprensibile ne i frati, la qual si considera per rispetto di tutti gl’estremi, et questi sono. Il poco, e’l molto: meritando riprension l’uno, et l’altro di questi eccessi nella congregation monastica, o quand’altri piglia men de gl’altri nel vivere, et nell’altre cose senza le predette compagne, o quando piglia più. Pero una sorte di cattiva singolarità s’intende, quando alcuno si piglia nel vivere, et nell’altre necessità del corpo men di quello, che ricerca la commune osservanza. Per tanto, sedendo una volta san Bernardo nel capitolo Portuacense in tribunale, (come si legge,) et essendogli dimandato da i frati un dubbio intorno alla singolarità d’un monaco, si rivolse à colui, et gli disse. Crederesti tu alla parola del Signore, o à quella dell’Evangelio, che non contradicesse à quella del Signore? et rispondendo il monaco. Le crederei per certo; replico san Bernardo. Et io benche sia peccatore, ti dico nella parola del Signore, che tu lasci da parte la tua singolarità, quantunque ti paia d’imitare usandola, alcuni Santi, perche haverai maggior merito, vivendo come fanno tutti gl’altri frati. Il monaco subito acquetatosi alle parole dell’Abbate, lascio la sua singolarità, et visse da indi inanzi, come una pecorella nel gregge commune. Deve esser molto fuggita la singolarità nelle communanze, et sopra ogni cosa quella, che scandaliza i più debili, della quale il medesimo san Bernardo nel secondo Sermone sopra la Cantica dice così. Non volete voi contentarvi della vita commune? Non vi basta il digiuno ordinato dalla Regola? Non le solenni vigilie, non le discipline commandate, non la misura, che vi diamo nel vivere, et nel vestire? Volete forse antipor l’opere particolari alle communi voi, che ci havete dato una volta la cura di voi istessi? Perche v’impacciate voi di voi più oltra? Ecco, che da novo havete per maestro, non me, ma la propria vostra volontà, con la quale per testimonio delle istesse vostre conscienze havete offeso tante volte Dio. Essa v’insegna à non satisfare à i bisogni della natura, à non consentire alla ragione, à non obedire al consiglio, et all’esempio de i padri, à non dar obedienza à noi. Forse non sapete, ch’è miglior l’obedienza, che’l sacrificio? Non havete voi letto nella Regola vostra, che tutto quello, che si fa senza la volontà, et consenso del padre spirituale, s’attribuisce à vanagloria, non à mercede?
Si legge nelle Vite de i Padri, che mangiando molti frati insieme in una congregatione, un di loro disse ad un ministro, che serviva alla mensa, che gli portasse un poco di sale, perche non mangiava alcun cibo cotto. Colui essendo occupato, disse ad un’altro ad alta voce: Porta un poco di sale à quel frate, che non mangia di cotto. Onde il beato Teodoro disse à quel frate. Era meglio, fratello, mangiar carne in cella, ch’alla presenza di tutti parlar di questa maniera.
Un frate de i nostri, che solava far molti digiuni particolari, oltra quelli, che commanda l’Ordine in commune, una volta udì una voce, che diceva. Lascia il tuo digiuno, et mangia con gl’altri: Le quali parole furon ricevute da lui, come dette dal Signore, et da indi inanzi, non sol fuggì i digiuni singolari, ma riprese anco quelli, che gli facevano, dicendo, che quelli, che digiunano singolarmente, peccano in molti modi.
Nel primo modo, perche s’appartano dalla mensa commune, et in tanto passeggiando per i chiostri, parlano di mille vanità.
Nel secondo, perche in quel tempo non sono alla presenza del Priore, che puo haver sospicion di loro, dove siano, o che cosa facciano.
Nel terzo, perche mangiando alla seconda tavola, o in forestaria, non stanno alla mensa con quella modestia, et con quel rispetto, ne tengono quella disciplina, ne quel silentio, che si fa alla prima.
Nel quarto, perche per un digiuno perdon due lettioni, quella del pranzo, et quella della cena.
Nel quinto, perc’hanno vanagloria del lor digiuno, et danno noia à quelli, che non digiunano, o almen ne i proprij cuori sentono qualche stimolo di superbia spirituale.
Nel sesto, perche con la loro singolarità danno spesso scandalo à gl’altri frati, et ne nascono maldicenze, mormorationi, contese, false opinioni, et sinistre interpretationi, perche altri attribuiscono le loro opere ad hipocrisia, altri dicono, che si fanno per guadagno, o per havere il favor delle genti: Et alcuni, che esse si fanno per noia della vita commune, et per un certo desiderio d’esser singolari fra gl’altri. Et finalmente si nuoce non poco alla vita commune in questo modo. Et s’altri vorrà fuggir questi scandali, si guardi dalla singolarità ne i luochi publici, et faccia in privato occultamente quello, che gli sarà inspirato da Dio.
Cap. XIII. Della cattiva singolarità de i frati nel pigliar più.
Si trova un’altra sorte di singolarità, che consiste nel pigliar più di quello, che si deve nella vita commune, quand’altri, non contentandosi di quello, che si da à tutti gl’altri, ricerca qualche cosa di più in particolare, che nella congregation monastica è detestabile, se non è accompagnato dalle tre dette conditioni.
Si legge nel libro de i Miracoli, che la beata Vergine apparve ad un monaco singolare con due altre verginelle, che portavano alcuni vasi pieni d’elettuarij, et la Regina del Cielo dava ad ogn’uno quello, ch’era ne i vasi, fuor ch’à colui, che vedeva questo, et chiedendone esso ancora, gli fu negato, et detto da lei. Tu medico guarisci te stesso. Io son venuta à consolar quelli, che con la loro singolarità non disturbano il monasterio. Dalla qual visione imparo il monaco à viver come gl’altri.
Un frate de i nostri molto semplice, et pieno di sincera affettione verso la sua Religione, non volse mangiar mai alla mensa commune cibo alcuno particolare, ne oltra la vivanda commune, voleva mai quella, che si chiama aggiunta, anzi riprendeva fra se quelli, che la pigliavano, et mangiavano, dicendo. O quanto deveno orar più de gl’altri costoro, havendo più elemosine de gl’altri. Et cio non senza ragione, come ho detto nel cap. 25. del libro secondo.
Habbiam nelle Vite de i Padri, che mangiando un padre di gran santità con molti frati, vide in spirito, mentre stava alla mensa, ch’alcuni di loro mangiavano mele, altri pane, et altri sterco. Di che meravigliandosi, prego Dio affettuosamente, che gli scoprisse quel misterio, et come havendo ogn’uno inanzi un’istesso cibo, esso si cangiasse, mangiandosi in tante diverse maniere. Et sentì una voce, che disse. Quelli, che mangiano il mele, son quelli, che con timore, et tremore, et dando gratie à Dio, siedono alla mensa, et orano continuamente. Quelli, che mangiano il pane, son quelli, che ringratiano il Signore, et pigliano allegramente cio, che vien lor posto inanzi. Ma gl’altri, che mangiano lo sterco, son quelli, che mormorando dicono. Questo è buono. Questo è cattivo. A questi fa un’ammonitione sant’Agostino nel Sermone, De prudentia, quando dice. Non debbiamo haver ardimento di dire. I legumi son ventosi: il cascio aggrava lo stomaco. Il qual luoco potrai veder di sopra nel cap. II. del presente libro.
Un frate, ch’era vivuto nella Religione molt’anni castamente, et devotamente, ma nel mangiare, et nel bevere era stato molto singolare, apparve dopo la morte turbato in viso in una dispensa ad una certa persona devota, et la prego, che facesse oration per lui. Apparendo costui nella dispensa, diede ad intendere, ch’era crucciato per la passata sua singolarità del mangiare, et del bevere. Apparve il medesimo poi ad un frate devoto, et gli disse, che per la misericordia di Dio, et per l’orationi de i buoni era stato liberato dal Purgatorio.
A questo proposito serve l’esempio dell’Abbate Serapione, del qual si fa mention nelle Collationi de i Padri, et l’habbiam registrato noi nel cap. 7. del presente libro, verso il fine. Egl’è ben vero, che s’in alcun monasterio fosse tanta strettezza delle cose necessarie alla vita, che secondo il diritto giudicio della ragione il frate non vi potesse sostentare, egli in un caso sì fatto provedendosi da qualch’altra parte con modi leciti di quello, che gli bisognasse, non meritarebbe d’essere accusato di cattiva singolarità, quand’havesse seco le tre predette compagne. Intorno à che puoi veder quello, ch’è scritto di sopra nel cap.13. del libro precedente. Vedano adunque quelli, che con la negligenza, et poca cura loro nuocono alla vita commune, in qual maniera possano scusarsi inanzi al rigoroso giudice di tanti mali, che nascono dal mancamento di questa communion del vivere, dicendo così le Constitutioni dell’Ordine nel cap. 40. Dalla particolar vita de i frati il convento si confonde, et essi sono sforzati à rapire, et rubare, et s’intepidiscono nell’utilità commune; nella quale è fondato lo stato dell’Ordine; la salute dell’anime, la pace, et la quiete de i corpi, et stanno ogn’hora apparecchiati, et pronti alla mormoratione, et alla maledicenza, dalla qual depende la confusion della Religione, et la perdita dell’anime. Essendo adunque la radice, e’l formite di questa sceleraggine la disordinata, et persevera vita dell’iniquo Priorer, non deve esser tolerato più lungamente nell’officio, poi che vivendo in questa maniera non merita nome di pastore, ma più tosto di lupo, destruttor del gregge raccomandato alla sua cura.
Cap. XIV. Della communion de i vestimenti.
La sopradetta distributione non consiste solamente nel vivere, ma anco ne i vestimenti, intorno à i quali, secondo l’intention del maestro nostro, si deveno considerar tre principali circonstanze.
La prima delle quali è, che sian dati dal commune.
La seconda, che tutti si piglino da un medesimo luoco.
La terza, che non sian notabili. Alla prima s’applican quelle parole della Regola. DISTRIBUATUR unicuique vestrùm à Preposito vestro victus, et tegumentum. cioè. Sia distribuito à ciascun di voi dal vostro Preposito il vivere, et i vestimenti. Et quell’altre più di sotto. SICUT pascimini ex uno Cellario, sic induamini ex uno Vestiario. cioè. Si come vivete d’una dispensa, così vestitevi d’un Vestiario. Et appresso. VESTIMENTA vero, et calciamenta, quando indigentibus fuerint necessaria, dare non differant, sub quorum custodia sunt, quæ poscuntur. cioè. I custodi di quello, che s’appartiene al vestire, et calzar de i frati, diano prestamente à i tempi necessarij à chi ne haverà bisogno, tutto cio, che sarà lor dimandato. Dalle quali parole si conosce chiaramente, che’l maestro nostro vuol, che’l commune proveda à i frati di vestimenti, come quello, c’ha osservato in se stesso il medesimo, come egli fa fede nel Sermone, De communi vita clericorum, che comincia. Charitati vestræ; con queste parole. Niuno mi dia una veste ricca, o una tonica di lino, o qual si voglia altra cosa, se non in commune. Me la pigliaro io proprio dal commune, sapendo che tutto quello, ch’io ho, voglio, che sia commune. Non voglio, chè la sanità vostra m’offerisca cose tali, quasi che si convenga più, ch’io solo debba servirmene. Et nel Sermone, De cœna Domini, à gl’eremiti dice. Mantenete la pace fra voi, perche sete fratelli, perche sete congregati insieme, partecipando noi tutti d’un pane, d’un vestimento, d’un medesimo color negro, et d’una istessa acqua. A questa santa intentione, et osservanza del padre nostro servono anco le nostre Constitutioni, come si legge ne i Cap. XXIV. et XXV. dove si determina, che si proveda à i frati di vestimenti à tempi convenienti. Ma come s’harebbe à fare, se’l commun Vestiario non havesse il modo di provedere à questa necessità del monasterio? Questa è veramente è una molto difficil questione. Io nondimeno replicaro quello, c’ho detto di sopra nel cap. V. et nel prossimo precedente di questo libro verso il fine, dove si potrà veder questa materia. La seconda circonstanza è che tutti i vestimenti si piglino da un medesimo luoco, come ordina sant’Agostino nella Regola, quando dice. VESTES vestras in unum habeatis sub uno custode, vel duobus, vel quot sufficere potuerint ad eas excutiendas, ne à tinea lædantur. cioè. Tenete i vostri vestimenti in un luoco solo sotto la cura d’uno, o di doi, o di tanti custodi, che possan bastare à scuotergli, accioche non sian guastati dalle tignuole. Nel qual luoco dice Ugone nell’esposition della Regola, che sant’Agostino ordina, che le vesti si tengano in un luoco solo sotto d’uno, o più custodi per due cause, la prima è, accioche non sian guastate dalle tignuole, come averrebbe, se non se ne havesse cura, et se non fossero sbattute, et rivendute. La seconda, accioche se fosse lecito tenerle in luoco particolare, il frate non le riputasse sue proprie. Alla qual intention del padre nostro corrisponde quello, ch’egli dice nell’altra Regola. Nemo sibi vendicet aliquid proprium, sive in vestimento, sive in quacunque re. cioè. Niuno s’approprij cosa alcuna, o dei vestimenti, o d’altro. Et à questa sentenza par, che sian conformi quest’altre parole. SI FIERI potest, ad vos non pertineat, quod vobis indumentum pro temporum congruentia proferatur, utrum hoc recipiat unus quisque, quod deposuerat, an aliud, quod alter habuerat, dum tamen unicuique; prout cuique opus est; non negetur. cioè. Non vi curate, s’è possibile, quando vi sarà dato qualche vestimento, come ricercano i tempi, se sarà quell’istesso, c’havevate lasciato, o un’altro, ch’altri havesse portato, purche non sia negato à niuno, secondo il bisogno, che ciascuno ne haverà. Dice, s’è possibile, perche s’altri facesse questo difficilmente, possa ripigliarsi il suo proprio vestimento: Ma sarebbe opera più perfetta, se colui si humiliasse tanto, che si contentasse solamente di quello, che bisogna la corpo, come dice l’Apostolo. Habentes alimenta, et quibus tegamur, his contenti simus. cioè. Havendo il modo di vivere, et di vestirsi, debbiam contentarsene: Ne determina la quantità, ne la qualità, ma parla solamente di quello, che basta alla natura, desiderando sempre più la volontà ne gl’imperfetti: il medesimo si legge nel Sermone, De oratione, à i medesimi frati, dove dice così. Et accio che possiate bene orare, et cantare senza molto impedimento del corpo, ho fatto portare à voi amati fratelli miei dell’entrate del Vescovato della chiesa d’Hippona cento cinquanta habiti per vestirvi, et calzarvi, accioche ne i tempi del freddo ogn’uno habbia, quanto gli bisognarà. Pero gli riporrete, et serbarete nel Vestiario commune con ogni diligenza, et carità, sapendo che la vera carità non dimanda quello, ch’è suo, ma quello, che è di Dio, et così facendo non mancarete. La terza circonstanza è, che i vestimenti non sian notabili, di che il nostro maestro parla così. NON SIT notabilis habitus vester, nec affectetis, vestibus placere, sed moribus. cioè. Il vostro habito non sia notabile, ne desiderate di piacer ad altri co i vestimenti, ma co i costumi. Dove dice Ugone. Questo sant’huomo ha fatto quello, c’ha insegnato, essendo scritto ch’egli nel vestire, et nel calzare non era molto delicato, ne molto sprezzato, ma soleva portare un habito modesto, et convenevole. Dice anco egli medesimo nell’allegato Sermone. Non voglio, che la santità vostra m’offerisca cose tali, quasi che si convenga più, ch’io solo debba servirmene. Se mi fosse donato, (diro per esempio,) qualche vestimento ricco, si convien forse al Vescovo, ma non ad Agostino, huomo povero, et nato di povere persone. Hora doveranno dir gl’huomini, ch’io ho trovato i vestimenti pretiosi, che non potrei haver nella mia casa paterna, o nella mia profession del secolo? Non sta ben questo: Debbo havergli tali, ch’io possa accommodarne un mio fratello, s’egli ne haverà bisogno, et tali voglio pigliargli, perche gl’ho dal commune, et s’alcun me ne desse di migliori, gli venderei, come soglio fare, accioche, se la veste non puo esser commune, fosse commune il prezzo, che se ne trahesse, la vendo, et dispenso il prezzo à i poveri. Pero, se colui vuol ch’io l’habbia, me la dia tale, ch’io non habbia ad arrossirmene: perch’io vi confesso, che mi vergogno di portar una veste di prezzo, non richiedendosi alla profession, ch’io faccio, à queste mie ammonitioni, à queste membra, à questi peli canuti. Nell’istesso proposito dice Ugone nel luoco citato. Le vesti de i frati deveno esser tali, che non possano esser punto tassate, ne di novità, ne di vanità, ne di superfluità, ne di cosa, che s’appartenga à superbia, o à vanagloria. Et nel libro, De claustro animæ, al cap. VIII. dice quasi il medesimo con queste parole. Nell’habito religioso quattro cose son notabili. La viltà: la superfluità: la strettezza: e’l molto valore. Nella viltà si nota la vanagloria, et la simolatione: Nel molto valore, la superbia, et la delettatione: Nella strettezza, l’intoleranza, et la desperatione: Nella superfluità, l’amor del mondo, non l’amor di Dio: l’amor del palazzo, non l’amor del Paradiso. Et soggiunge. Quanto alla diversità delle vesti, diversi dicon diverse cose. Vogliono alcuni, che’l vestimento di lino sia dimezo fra la porpora, e’l sacco, fra la seta, e’l cilicio, ma noi, che non siamo di casa regia, ma huomini di Chiesa, eleggiamo la lana, che non punge altrui con l’immoderata asprezza, ne è molto lontana dalla morbidezza della veste di lino, percio che quelli, che portano i vestimenti delicati, stanno ne i palagi de i Rè. Nel qual luoco discorrendo il medesimo Ugone nell’esposition della Regola dice in questo modo: I vestimenti si chiaman delicati, perche fanno l’animo delicato. Le corti Regali si dilettano de i vestimenti delicati, et la Chiesa di Christo de gl’humili, et de, gl’aspri: Et nell’allegato Trattato, De claustro animæ, al Cap. XVIII. del secondo libro dice. Dimostra l’Apostolo nel cap.2. della prima Epistola à Timoteo, qual debba esser l’habito delle persone religiose, quando dice. Non i vestimenti pretiosi: Et s’egli nega il vestimento pretioso alla delicatezza delle donne, dei pensar, che conceda l’habito più pretioso al monaco? Et soggiunge. Hoggi la cappa del canonico, et la cocolla del monaco non son differenti dalla cappa del soldato, et come disse un savio, il soldato, e’l monaco si fanno il capuccio, e’l saio d’un medesimo panno, ne è molto differente l’habito del Canonico Regolare da quello del secolare, onde se tu vedi il Regolare, ti par di veder un’Archidiacono, o un Vescovo. Ma forse mi dirai, ch’alle persone delicate si convengono le cose delicate, allegando quelle parole di S.Agostino nella Regola per testimonio. Et s’à quelli, che son venuti dalla vita delicata al monasterio, si da qualche cibo, o vestimento, o altra cosa da coprirsi, che non si da à i più forti, et percio più felici, deveno considerar quelli, à i quali non si danno queste cose, quanto quegl’altri si sian ristretti, passando dalla secolare alla religiosa vita. Io consento à quell’auttorità, quant’à cio, ch’alla persona delicata si dia quello, che gli basta, ma non tanto, c’habbia à diventar superbo. Ma ascolta tu ancora, carissimo fratello, quello, che dice il medesimo S.Agostino più oltra nel medesimo luoco, quando soggiunge. Accioche non ne segua questo detestabil disordine, ch’i poveri diventino delicati nel monasterio, dove i ricchi s’avezzano alla fatica, quanto possono. Io son bugiardo, se non ho veduto alcuni, ch’eran tanto poveri, quando vivevano fuori dell’Ordine, che non potevano pur provedere alle proprie necessità, et perc’hanno trovato quel vivere, et quei vestimenti nel monasterio, che non havevan potuto trovar di fuori, fatti superbi non si son voluti accompagnar con quelli, à i quali, quand’eran di fuori, non ardivano pur d’appressarsi, et usciti d’una povera chiesa, sono andati cercando d’essere accettati nelle più ricche. Et quelli, che soleva portar sempre i pani vecchi, et vili, hora usano ogni industria per havergli sempre novi, et pretiosi, et benche non havessero alcun letto proprio, prima ch’entrassero nella Religione, adesso, se vogliono andare in qualche luoco, porta seco sin’à gl’ornamenti del letto. Et più di sotto nel medesimo capitolo dice. Fra quelli ancora, che portan le toniche, è entrato il piacere, non che usin le camiscie, ma un certo panno delicato, che si chiama sagia. Mostran questi portando la vesta di lana di fuori, l’asprezza della vita loro, ma nella dilettatione di quel panno delicato cercan la morbidezza della soavità del panno: ho veduto, se ben mi ricordo, un monaco, che portava la camiscia di lino, et scherzando diceva. Costa più la camiscia di stame, che quella di lino, et con gran difficoltà si porta una sola tonica. Mi dirai forse, che costui era infermo. Anzi egl’era sano, si dava buon tempo, et cavalcava un cavallo grasso, era ricco, et frequentava le Corti, et non dimeno, prima che pigliasse l’habito della Religione, soleva caminare à piedi, ne sempre portava le camiscie di lino. Questo dice Ugone. Si legge nelle Vite de i Padri, ch’andando un monaco inanzi all’Abbate Isaac con una picciola cocolla, il vecchio gli disse. Questa è una habitation di frati, ma tu sei un’huomo secolare, et non potrai star quì. Diceva anco il detto Abbate. I padri nostri portavano i vestimenti abietti, ma voi, che gl’usate pretiosi, partitevi di quà, perche sarete causa della destruttion di questo luoco. Nell’habito de i Religiosi tutti gl’estremi son notabili, et per consequenza riprensibili, et questi sono: il soverchio valore, et la soverchia strettezza, et parimente la soverchia delicatezza, et la soverchia asprezza. La sola mediocrità è lodevole. Pero gl’antichi Padri de i monasterij non volsero usar i vestimenti di cilicio per esser notabili, come si legge nel primo libro dell’Institutioni loro, al terzo cap. et così per non esser utili allo spirito, come anco, perche fanno superbo il monaco, et l’impediscono, et ritardano ne i servitij del monasterio, et benche si legga, ch’alcuni Santi hanno usato i cilicij, non si deve pero farne regola universale per i monasterij, ne il privilegio di pochi deve essere antiposto alla generale institution de i padri. Pero, se hoggi ancora fosse alcuno, che potesse sopportare il cilicio per gratia particolar di Dio, senza incorrer ne i predetti disordini, meritarebbe d’esserne lodato, se ben non haverebbe ad essere imitato da tutti. Il beato Nicola da Tolentino portava di fuori gl’humili vestimenti della sua Religione, ma usava gl’aspri di dentro, per il che un suo cugino, ch’era Prior d’un ricco monasterio, vedendo quanto egli fosse povero, nudo, et bisognoso, si sforzava di persuaderlo ad entrar nella sua Religione, et lasciar la propria, ch’era povera; della qual tentatione egli turbatosi, et messosi in oratione, udì una voce di venti Angeli, che gl’apparvero, et dissero. Rimanti nella vocatione, in cui fosti chiamato, di che habbiam fatto mentione un’altra volta nel cap. XII. del libro precedente. Si dice anco, che’l beato Agostino Novello haveva poche vesti, et communi, come ho detto di sopra nel cap. XI. del medesimo libro. Adorniamoci adunque de gl’ornamenti spirituali, perche, come dice S.Gieronimo, la purità della mente, non la delicata veste, adorna il chierico, ne cerca Iddio la bellezza esteriore, ma l’interiore, essendo scritto; ch’ogni gloria nasce da quello, ch’è di dentro: et ricordiamoci di quello, che dice l’Apostolo con queste parole. Licet is, qui foris est, noster homo corrumpatur, tamen is, qui intus est, renovatur de die, in diem. cioè. Benche l’huomo nostro esteriore si corrompa, l’interiore si rinova di giorno, in giorno con l’aiuto del Signor nostro GIESU CHRISTO, il qual regna col Padre, et con lo Spirito Santo per tutti secoli de i secoli. Amen.
Cap. XV. Quali punti della Regola, et delle Constitutioni habbian loco in questa quarta Communione.
A questa Communione s’appartengono tutti i punti della Regola, et delle Constitutioni, che parlano della distributione, et provisione delle cose necessarie, et specialmente intorno al vivere, et à i vestimenti. I punti della Regola, sopra i quali son fondati tutti i Capitoli di questo libro, si trovan particolarmente notati ne i medesimi Capitoli. I Capitoli delle Constitutioni, che si appartengono à questo libro, son questi. Il XXII. XXIII. XXXIV. XXV. XXVI. et XXX. Il XL. in parte, e’l fine del XLV. li quali particolari Capitoli delle Constitutioni s’accommodano ad ogn’uno de i Capitoli di questo libro ultimo, secondo la proportione, et convenienza, c’hanno con la materia.
Fine del Quarto, et Ultimo Libro.