Cap. V
Bonifazio VIII e Filippo il Bello
[Pag. 100] Quando Giacomo da Viterbo ascendeva alla sede arcivescovile di Napoli un terribile uragano si era abbattuto sull'atmosfera politico-religiosa di Francia e della Cristianità. Da alcuni secoli la Chiesa aveva conquistato una posizione direttiva di tutta la vita sociale dei popoli cristiani. Ma ora la lotta tra Bonifazio VIII, l'erede dello spirito di Gregorio VII e d'Innocenzo III, e Filippo il Bello, il monarca assertore dell'autonomia politica della propria dinastia, doveva far crollare il superbo edificio della potenza ecclesiastica da numerosi pontefici con varia fortuna e grande abilità innalzato. Bonifazio VIII non ha avuto fortuna con gli storici che di lui si occuparono. Oggetto in vita di odi inestinguibili, dopo morte gli avversari tentarono il processo contro la sua memoria ed i posteri disputarono intorno alla sua opera e non pochi la condannarono. Eppure questo pontefice, bersaglio di tante ire, compensava con grandi qualità i suoi difetti. Uno scrittore contemporaneo che fu alla sua corte e lo curò nelle malattie, [Pag. 101] Arnaldo da Villanova, asserisce che egli era dotato "intellectualitatis aquilina perspicacia, scientiarum eminens peritia, cunctarum agibilium exquisita prudentia, in aggrediendis arduis audacia leonina, in prosequendis difficilibus stabilis constantia". Qualità queste che unite ad un alto concetto del suo potere e ad un carattere ardito, tenace, resero capace Bonifazio di affrontare i nemici suoi e della Chiesa. Grande sventura per lui che aveva la tempra e la mentalità dei più grandi pontefici del medio evo, fu l'esser vissuto in tempi nei quali la potenza politica del papato, dopo aver toccato il suo culmine, declinava rapidamente alla fine. Papato e impero, i due grandi ideali che avevano animato le coscienze e suscitato tante lotte nell'età di mezzo, si avviavano a diventare, politicamente, secondo la frase del Carducci, "una mesta ruina". Di fronte a queste due istituzioni, solide ancora in apparenza, i popoli si orientavano, prima in Francia e poi negli altri paesi, verso l'unità nazionale, e non ammettevano più un potere universale, che avesse la direzione suprema della cristianità: lo stato moderno sorgeva con tutte le sue catatteristiche e finalità. Bonifacio VIII non comprese i nuovi tempi, e nella lotta contro Filippo il Bello doveva fatalmente soccombere perchè il Re di Francia era sostenuto dal sentimento nazionale del suo popolo. Ma la lotta era inevitabile. Quando due principi, l'uno della monarchia universale radicata [Pag. 102] nelle menti e nelle coscienze medioevali da lunghi secoli, l'altro della monarchia nazionale, nuovo, è vero, ma sorretto dal sentimento di tutto un popolo, quando questi due principi sono rappresentati da uomini come Bonifazio VIII e Filippo il Bello, l'urto deve necessariamente seguirne, ed il conflitto non ammette mezzi termini ma si prolunga fino alle estreme conseguenze. Le prime avvisaglie della lotta grandiosa rimontano al 1296. Da due anni Filippo il Bello che meditava la conquista della Fiandra, era in guerra con l'Inghilterra: Bonifazio VIII che, data la sua concezione politica del papato, si credeva in dovere d'intervenire in tutte le questioni d'Europa, si intromise fra i belligeranti perchè conchiudessero la pace, ed avendo invano fatto ricorso alle esortazioni, li minacciò di scomunica. Ma il suo orgoglio rimase gravemente ferito, quando i contendenti negarono a lui ogni facoltà d'ingerirsi nel governo temporale dei loro regni. Il più recalcitrante era Filippo il Bello. Quando Edoardo d'Inghilterra e Adolfo di Nassau, suo alleato, dichiararono ai legati pontifici che acconsentivano a partecipare ai negoziati di pace, il re di Francia oppose mille ostacoli e le trattative fallirono. Il denaro per fare la guerra era fornito ai due monarchi dalle chiese da essi tassate. [Pag. 103] Fin dagli anni 1179 e 1215 il terzo e il quarto concilio Lateranense avevano proibito ai principi temporali di imporre balzelli sui beni dei chierici e della Chiesa (1). Nel 1260 Alessandro IV aveva rinnovato il divieto d'imporre collette e tasse al clero. Niccolò IV nel 1291 avendo constatato che il monarca francese non aveva intenzione d'intraprendere la crociata, si era ricusato di prolungare l'indulto, concesso da molto tempo alla Casa Regnante di Francia, di levare le decime dei beni ecclesiastici a beneficio delle spedizioni in Terra Santa. A Bonifacio VIII erano pervenute suppliche dei vari prelati francesi perchè li proteggesse dalle concussioni degli ufficiali regi, ed egli a dì 24 febbraio 1296, ottenuto il consenso dei cardinali, pubblicò la bolla "Clericis laicos" nella quale, sotto pena di scomunica, si proibiva a tutti i laici, principi, re, imperatori, di imporre tributi al clero, e al clero di pagarli. Non fu però un atto di ostilità diretto in modo speciale contro Filippo il Bello: la bolla fu pubblicata contemporaneamente in Francia, in Inghilterra, in Germania. Come rappresaglia, a dì 17 agosto 1296, la cancelleria del re francese proibiva con un editto l'esportazione dell'oro e dell'argento, senza facoltà regia, fuori del Regno: neanche le oblazioni a favore della Palestina [Pag. 104] potevano più giungere a Roma. La S. Sede ne fu allarmata e corse ai ripari, mentre in Francia la maggioranza del clero o rimaneva inerte o si schierava in favore del re. Ventitre prelati scrivevano a Bonifacio VIII pregandolo di ritirare la bolla ed annunziavano l'invio di alcuni legati che dovevano recare le più ampie spiegazioni (2). Una seconda bolla del Papa che s'iniziava con le parole "Ineffabilis amor" rettificava alcuni punti della bolla "Clericis laicos" dando ad essi un'interpretazione non troppo ostile alle pretese del Re di Francia, dichiarando che in essa non erano contemplati i tributi feudali e non si proibiva di chiedere sussidi alle Chiese purchè si ottenesse prima il consenso del Papa. Il Pontefice con termini energici qualificava insensata la condotta del Re e lo ammoniva a non alienarsi le simpatie della S. Sede (3). Filippo il Bello fece allora compilare un manifesto che dovette rimanere un semplice abbozzo e probabilmente non uscì dalla Francia perchè altrimenti Bonifazio VIII ne avrebbe fatto menzione in qualche altro scritto successivo. Il Re sosteneva che tutti i cittadini, laici e chierici, [Pag. 105] nobili e plebei avessero l'obbligo di partecipare agli oneri dello Stato: e contro gli ecclesiastici incassati, impinguati et dilatati dal favore sovrano, affermava la revocabilità delle immunità e degli altri privilegi elargiti dal potere civile. La risposta di Filippo cominciava con le parole: "Antequam clerici essent, rex Franciae habebat custodiam regni sui et poterat statuta facere" (4). Si aprivano intanto le discussioni fra i giuristi del Re e quelli del Papa, fra gli scrittori regi e quelli curialisti. Ma nè Bonifazio VIII nè Filippo il Bello volevano, per il momento, impegnarsi a fondo nella lotta: ambedue avevano, bisogno di una tregua: il Papa per intraprendere la guerra contro i Colonna, il Re per ottenere la canonizzazione di Luigi IX, in Francia tanto desiderata. Con due bolle in data 5 febbraio e 31 luglio 1297, comincianti l'una con le parole Romana mater l'altra Etsi de Statu, il Papa concedeva al monarca francese l'autorizzazione a ricevere contributi dal clero inconsulto etiam Pontifice Romano, a patto che si trattasse di urgente necessità (5). Così verso la fine del 1297 la concordia fra Roma e Parigi sembrava ristabilita. [Pag. 106] Proprio in quell'anno Bonifazio affidava a Matteo d'Acquasparta e ad altri legati l'incarico di predicare la guerra contro i Colonna e i loro aderenti. Finora le Crociate erano state promulgate soltanto contro infedeli ed eretici, ora si bandivano anche contro cristiani e cattolici per fini politici. Ma nella coscienza di Bonifazio questa guerra si coloriva di un forte sentimento religioso, in quanto i nemici della sua persona erano anche ribelli dell'alta dignità di cui era investito. Per vincerli più facilmente si tentò di gettare la discordia fra i vari rami dei Colonna. Ancora ci commuove la rozza musa ispirata di Jacopone: Quando nella contrada t'aiace alcun castello / Mestante metti scretio entra frate e fratello / A l'un getti el brazzo en collo, e l'altro mostre el coltello / Seo non assente al tuo capello, menaccel de ferire (6). Quando fu libero dai Colonnesi e infervorato del successo del giubileo del 1300 che fu i l'apoteosi dell'idea cristiana e romana, il Papa riprese le ostilità contro Filippo il Bello. A dire il vero, ve lo spingeva l'astuto monarca con la sua condotta poco riguardosa dei privilegi ecclesiastici. Si pensava allora a Parigi ad una futura [Pag. 107] monarchia universale di cui il capo sarebbe stato il sovrano francese dopo avere assoggettato l'Italia, compresi gli stati pontifici, e gran parte dei paesi nordici. Si trattava di mandare ancora una volta ad effetto la vecchia idea dell'impero mondiale, ma ora questo progetto era accarezzato da una nazione forte e riunita intorno al suo re, e la sede di questa potenza universale si spostava dalla Germania in Francia. Il 24 ottobre 1301 Pietro de Flotte, consigliere del Re, accusava dinanzi al consiglio di Stato, come reo di alto tradimento, Bernardo di Saisset, vescovo di Palmiers, inviato in Francia da Bonifazio VIII per presentare al sovrano alcune rimostranze su tutte le questioni pendenti fra la S. Sede e Filippo. Il legato pontificio fu condannato ed affidato alla custodia dell'arcivescovo di Narbona. Immediatamente il Papa ai 5 dicembre dello stesso anno, imponeva la liberazione del suo ambasciatore e convocava a Roma i vescovi, i dottori e i procuratori dei capitoli di Francia perché riuniti in una grande assemblea deliberassero e suggerissiro i mezzi migliori per conservare la libertà della Chiesa e combattere gli arbitrii del re e dei suoi ministri. Inoltre il Papa pubblicava la bolla "Ausculta, fili", nella quale revocava tutti i privilegi accordati al re a proposito dell'imposizione delle decime, e ribadiva il suo concetto della supremazia del Vicario di Cristo su tutti i principi e sovrani [Pag. 108] della terra. Narrano parecchi storici che quando Giacomo Normanno, arcidiacono di Narbona, portò in Francia i decreti del papa, il conte d'Artois cugino di Filippo, fece bruciare la bolla. Vero o no il fatto, dovette correrne insistente la voce, perchè Bonifazio reclamò in seguito, anche di questo oltraggio, soddisfazione (7). Ma forse bisogna discendere attraverso i secoli, fino ai tempi di Lutero perché una bolla del pontefice romano fosse pubblicamente bruciata. In cambio della bolla di Bonifacio si sparse nel regno di Filippo un'altra breve lettera cominciante con le parole: "Scire te volumus" attribuita al papa e falsificazione probabilmente di Pietro de Flotte. In essa si teneva verso il re un linguaggio ingiurioso e si diceva che i sovrani terreni erano soggetti al pontefice nello spirituale e nel temporale. Fu anche diffusa una pretesa risposta breve ed altezzosa di Filippo a questa supposta bolla di Bonifazio. Tutti i mezzi erano buoni per aizzare contro la S. Sede l'orgoglio nazionale dei Francesi. Il 10 aprile 1302 fu convocata a Parigi l'assemblea nazionale dei tre stati del Regno. Pierre Flotte, guardasigilli del re, vi tenne un discorso a nome del sovrano. Con molta abilità egli cercò di far vibrare le corde del sentimento nazionale, accusando il pontefice di volere assoggettare il re nel temporale e di celare segreti disegni contro [Pag. 109] la Francia; poi, dopo aver dichiarato che bisognava esporre, se occerresse, la fortuna e la vita per la grandezza della patria, conchiudeva rivolgendo ai tre stati la solita formula per chiedere "auxilium et consilium contra hominem". Un cronista, Bernando Giudonis, ci assicura che il discorso suscitò molti commenti e produsse grande impressione: fit rumor magnus in toto regno, turbatio cordium et confusio rerum...". Lettere di protesta preparate per essere inviate Roma, indirizzate ai Cardinali nella speranza di gettare la divisione nel Sacro collegio, furono firmate dai nobili e dai borghesi. Il clero fece delle riserve ma finì coll'aderire alle richieste di Filippo il Bello e rivolse una lettera a Bonifazio supplicandolo di tenere una condotta benevola verso la Francia e di revocare la convocazione del sinodo. Fu vietato ai prelati di recarsi al concilio indetto dal papa sotto pena di essere dichiarati nemici del re. Ma nonostante il divieto del parlamento 6 abati, 35 vescovi, 4 arcivescovi fra cui Egidio Romano (8), uscirono dalla Francia diretti a Roma e il re confiscò i beni di questi profughi. Aperto il Sinodo ai 30 di ottobre 1302 Bonifazio pronunciò l'anatema contro coloro che avessero imprigionato, arrestato, e in qualsiasi modo recato molestia a chi andava o tornava dalla Sede Apostolica e pubblicò la Bolla "Unam sanctam" [Pag. 110]la più solenne affermazione della dottrina Teocratica del Medio Evo. Pochi mesi innanzi questo famoso concilio, mentre ferveva la contesa, Egidio Romano e Giacomo da Viterbo presentarono al papa due trattati politici dei quali ben presto ci occuperemo. Non è nostro compito tratteggiare i grandi avvenimenti che seguirono al Sinodo indetto da Bonifazio VIII e culminarono nell'insulto di Anagni. Volevamo soltanto accennare alle cause prossime che determinarono il grandioso conflitto fra il Pontefice di Roma e il Re di Francia. E passiamo senz'altro all'analisi delle opere dei tre agostiniani che ebbero il grave compito di illustrare e difendere le teorie politiche dei Pontefici romani.
NOTE
(1) MANSI, SS. Concil. nova et amplissima collectio. T. XXII, col. 229-230 e col. 1028. Venetiis 1778.
(2) ROCQUAIN, Le Papauté au moyen age. Paris, Plon 1861, pag. 242.
(3) IDEM, Ibid., pag. 241.
(4) DUPUY, Hist. du differend entre le Pape Boniface VIII et Philippe le Bel, pagg. 21-23.
(5) DUPUY, Op. cit., pagg. 38-40.
(6) JACOPONE DA TODI, Le satire edite da Biordo Brugnoli. Firenze 1914, pag. 311.
(7) Rocquain, Op. cit., pag. 268.
(8) DUPUY, Op. cit., t. I, p. 86.